“Huawei è ovviamente rattristata dalla decisione del signor Griezmann di porre fine al suo rapporto con la nostra azienda. Saremmo lieti di avere l’opportunità di illustrare a signor Griezmann il lavoro che si sta attualmente svolgendo ai più alti livelli, all’interno dell’azienda, per affrontare le questioni dei diritti umani, dell’uguaglianza e della discriminazione, per rassicurare lui, e tutti i nostri clienti e partner, che Huawei prende molto sul serio queste tematiche”. Così Huawei replica alla decisione del calciatore francese, stella del Barcellona e della nazionale transalpina campione del mondo in carica, di rompere il contratto che lo legava alla società cinese.
“Visti i forti sospetti di un contributo dell’impresa Huawei allo sviluppo di una ‘allerta Uiguri’ grazie a un software di riconoscimento facciale, annuncio che metto fine immediatamente alla partnership che mi lega a questa società”, aveva detto nei giorni scorsi Griezmann – che si distingue nel panorama delle star del calcio per il suo impegno in cause legate al rispetto dei diritti umani – rompendo il legame che ne faceva un “ambasciatore” di Huawei dal 2017.
Gli uiguri sono il principale gruppo etnico dello Xinjiang, una vasta regione della Cina con frontiere comuni con Afghanistan e Pakistan. Un rapporto interno dell’azienda cinese spiegava che Huawei aveva lavorato nel 2018 con la start-up cinese Megwii allo sviluppo di un software per il riconoscimento facciale in grado di determinare età, sesso e origine etnica, fornendo “allerte sulla presenza di uiguri”: documento, rintracciato sul sito internet di Huawei (che lo avrebbe pui ritirato) è stato utilizzato dal Washington Post per pubblicare un articolo. Nei giorni successivi Human Rights Watch ha sottolineato in un rapporto che alcuni musulmani sono stati arrestati nella regione cinese dello Xinjiang dopo essere stati “segnalati” grazie a un software che individua i loro comportamenti sospetti.
Motivando la sua decisione Il calciatore ha così chiesto al gigante della telefonia mobile di “non accontentarsi di negare le accuse”, ma di “impegnarsi al più presto in azioni concrete per condannare questa repressione di massa” della minoranza degli uiguri, “utilizzando la sua influenza per contribuire al rispetto dei diritti dell’uomo e della donna in seno alla società”.
“Non sviluppiamo algoritmi o applicazioni nel campo del riconoscimento facciale – prosegue Huawei nella sua replica – ma solo tecnologie per uso generico basate su standard globali nel campo del machine learning e dell’intelligenza artificiale. Huawei non è coinvolta a livello di applicazione del servizio che determina l’utilizzo di una tecnologia nata per scopi generici. I nostri prodotti e soluzioni sono conformi agli standard di settore e ai relativi requisiti legali”. La società inoltre sottolinea di aver aderito “al Global Compact delle Nazioni Unite (Ungc) che sancisce tra i propri principi che le imprese devono sostenere e rispettare la protezione dei diritti umani proclamati a livello internazionale”.
“Entrando nel merito del rapporto del Washington Post, questo fa riferimento a un test che non è stato utilizzato nella pratica commerciale. Secondo il Washington Post, il portavoce di Magvii ha affermato che le applicazioni dell’azienda non sono progettate per identificare i gruppi etnici. Il linguaggio utilizzato nel documento a cui si fa riferimento è del tutto inaccettabile e non è riconducibile a Huawei – conclude l’azienda – che pone la non discriminazione al centro dei propri valori aziendali. Infine, la persona responsabile dell’approvazione del documento non è un dipendente Huawei, ma un subappaltatore”.