La strategia immaginata dai dirigenti che decidono le politiche spaziali cinesi è semplice e allo stesso tempo “banale”: un passo dopo l’altro, riuscire a fare tutto ma proprio tutto quello che russi ed americani hanno fatto in cinquant’anni e più di esplorazione spaziale. Naturalmente, utilizzando vettori, capsule e stazioni spaziali completamente realizzate in patria (anche se largamente ispirate a modelli sovietici e post-sovietici). E ovviamente, bruciando le tappe in modo da recuperare il terreno perduto nel tempo più breve possibile.
E così, a soli nove anni di distanza dal primo lancio in orbita di una capsula con a bordo astronauti (o meglio, taikonauti, come preferiscono dire i cinesi), con il recente rientro a terra dopo una missione di 13 giorni nello spazio della navicella Shenzhou 9, l’astronautica cinese con questo quarto viaggio “abitato” ha impeccabilmente centrato una nuova sequenza di “prime” assolute. Prima volta nello spazio per una astronauta donna, Liu Yang; prima permanenza di 10 giorni a bordo della mini-stazione spaziale Tiangong 1; primo rendez-vous condotto manualmente dal comandante della Shenzhou 9 Jing Haipeng.
Chissà se questa strategia autarchica si rivelerà vincente. Per certi versi i risultati sono impressionanti: in nove anni, appunto, la Cina partendo da zero ha raggiunto le capacità e le performances conseguite dall’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’80. Vedendo le cose da un’altro punto di vista, però, si potrebbe anche dire che non siamo nel 1982, ma nel 2012. E che tutto sommato i cinesi dispongono di una capsula uguale alle vecchie Soyuz e di una stazione spaziale identica alle prime Salyut, sostanzialmente un “barattolo” lungo qualche metro. Magari, se avessero cercato di partecipare (e se li avessero voluti far partecipare, ovviamente) ai programmi spaziali della Stazione Spaziale Internazionale, avrebbero potuto fare un balzo in avanti tecnologico più radicale e coraggioso.
Ma le cose sono andate diversamente. E quindi proseguendo sulla via dell’autarchia spaziale la Cina ha già annunciato la sua intenzione di arrivare negli anni ’90, mettendo in orbita modulo dopo modulo una stazione spaziale più articolata e simile alla Mir russa, che dovrebbe essere completata prima del 2020. Cominciando (esattamente come fece l’Urss) da una versione più grande e riveduta e corretta della Tiangong 1. Che per qualche mese resterà disabitata e verrà controllata da terra, forse anche innalzandone l’orbita per prolungarne la vita operativa. Sullo sfondo, lo sviluppo di una versione “heavy-lift” del lanciatore Lunga Marcia, che sarebbe capace di sollevare i pesanti moduli dell’avamposto orbitale ed – eventualmente – spedire una missione con taikonauti cinesi sulla Luna. Missione di puro prestigio, probabilmente concepita con il solo scopo (garantito) di impressionare e far arrabbiare gli americani.