“Non siamo pregiudizialmente contro la privatizzazione delle società in house, crediamo però che questo percorso vada condiviso con le Regioni in rispetto del principio di sussidiarietà e delle esigenze dei singoli territori”. Alberto Daprà , presidente di Assinter, spiega al Corriere delle Comunicazioni cosa non convince nel decreto di spending review che – all’articolo 4 – elimina le società regionali, comprese quelle dell’Ict.
Cosa non la convince del decreto?
La tempistica stringente (il provvedimento prevede la chiusura delle aziende entro la fine del 2013 ndr) e il fatto che non si è affrontato il tema rispettando l’autonomia organizzativa costituzionalmente riconosciuta alle Regioni e Province autonome che, soprattutto in un settore strategico come è l’Ict, dovrebbero poter auto-organizzarsi. In questo modo si mette a serio rischio l’erogazione dei servizi essenziali ai cittadini, come ad esempio i servizi sanitari digitali, si frena lo sviluppo economico dei territori e – cosa da non sottovalutare – si possono provocare danni alle finanze pubbliche. Per tutti questi motivi abbiamo elaborato un documento da inviare al presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, dove mettiamo nero su bianco delle ipotesi di razionalizzazione del settore alternative a quelle della spending review.
In cosa consistono le proposte?
Proponiamo di avviare insieme alle amministrazioni un percorso di medio-lungo periodo che contempli anche forme di privatizzazione. Ci sono aziende regionali, come ad esempio Lombardia Informatica, che si sono già mosse in questa direzione affidando in outsourcing alcuni servizi “non core” come i call center. E anche nella stessa Assinter sta emergendo una tendenza che va verso la riduzione delle attività operative per concentrarsi in maniera più specifica sulle attività ad alto valore aggiunto, l’elaborazione delle specifiche tecniche e il project management, ovvero tutte quelle azioni che vanno a qualificare la gestione della domanda. Gestione della domanda che deve diventare sempre di più il core business delle società in house. Crediamo che sia questa la strada giusta da intraprendere per attuare una spending review che abbia realmente l’ambizione di tagliare gli sprechi ed efficientare l’amministrazione pubblica.
L’eliminazione delle in house significa anche perdita di posti di lavoro. Quanti sono in Italia gli addetti a rischio?
Le in house dell’Ict impiegano direttamente circa 5mila persone a cui ne vanno aggiunte altrettante nell’indotto. Si tratta di un problema che va risolto al più presto sia per garantire i livelli occupazionali in periodo di difficoltà economica come quello che stiamo attraversando sia per tutelare le competenze che quei dipendenti garantiscono alla pubblica amministrazione: ingegneri e specialisti IT che sono il vero valore aggiunto delle aziende.
Cosa è necessario fare, a suo avviso?
È necessario attivare dei meccanismi condivisi con le Regioni, anche pensando a percorsi ragionati di outsourcing dei servizi operativi.
Le Regioni, che in questi giorni, stanno discutendo con il governo del tema in house affermano che i servizi gestiti dalla aziende regionali possono far gola ai privati. Lei che idea si è fatto?
Non entrando nella polemica, mi limito a sottolineare che una delle capacità dimostrate in tutte questi anni dalle società è stata quella di valorizzare il tessuto imprenditoriale locale, spesso “schiacciato” nella morsa dei grandi fornitori internazionali.
Il governo taglia le in house perché costano troppo. È davvero così?
La risposta alla sua domanda la danno i numeri. Per quanto riguarda i costi di gestione – come si può verificare dallo studio realizzato tra il 2010 e il 2011 dall’ Università La Sapienza di Roma per Assinter – il costo medio del personale nella grande maggioranza dei casi oscilla tra i 45 e 50mila euro annui per unità lavorativa, in linea con il mercato. Per cui la questione dei costi alti non sussiste.