Il 28 febbraio sarebbe dovuto essere il giorno dello switch off, se non totale – la deadline non riguardava i piccoli Comuni – almeno parziale della PA. Il giorno in cui i cittadini avrebbero potuto accede ai servizi online tramite Spid, Cie o Cns e in cui gli enti avrebbero integrato nei sistemi di incasso per la riscossione delle proprie entrate e avviato la trasformazione della “PA in app” mettendo a disposizione le prestazioni sull’App IO.
Come abbiamo visto dai numeri così non è stato: molte le amministrazioni inadempienti e poche quelle in regola. Con il risultato che è andata persa l’ennesima occasione per accelerare sulla trasformazione.
Di cosa non ha funzionato e di come rimuovere gli ostacoli che rallentano i processi di innovazione ne parliamo con Giorgia Dragoni, direttrice dell’Osservatorio Digital Identity del Politecnico di Milano.
Dragoni, perché le PA non si sono presentate pronte alla scadenza?
Perché definire una scadenza non basta ad abilitare il cambiamento. Il decreto Semplificazioni ha, sì, identificato il 28 febbraio come data dalla quale iniziare ad erogare servizi tramite digital identity – Spid, Cie, Cns – ma senza prevedere sanzioni o meccanismi incentivanti per gli enti inadempienti e per quelli a norma. Eppure, la pandemia è stata un punto di svolta nel modo di funzionare della PA e anche delle modalità con cui gli utenti fruiscono dei servizi pubblici. Con il lockdown, in molti casi, l’accesso alle prestazione è avvenuto solo online e questo ha impresso una forte accelerazione alla diffusione di Spid & co. Lo dicono i numeri delle amministrazioni che fanno accedere via Spid, che sono circa 6200, e anche del numero degli utenti che ha superato i 17 milioni. Poi c’è l’altro grande tema che riguarda i processi interni alla PA…
Ovvero?
Spesso questi strumenti vengono inseriti in una modalità organizzative e in processi obsoleti. Non rappresentano dunque, o almeno non ancora, una leva per innovare anche il back office. E questo fa naufragare i progetti di digital transformation, nei quali l’erogazione del servizio online è solo l’ultima parte. Prima c’è tutto un modo di funzionare “analogico” che non viene intaccato.
Da cosa dipende?
Soprattutto dalla mancanza di competenze e anche di risorse investite sulla riorganizzazione dei processi interni. È impensabile credere di poter innovare i servizi senza innovare anche tutto quello c’è dietro quei servizi.
Sappiamo che la pubblica amministrazione italiana sconta anche l’età media dei dipendenti che è alta. Dobbiamo sperare nel ricambio generazionale per vedere la svolta?
Quello è certamente un aspetto da tenere in considerazione ma, a mio avviso, non così ostativo come si pensa. La mancanza di e-skill può essere colmata con grandi piani di formazione digitali, con un monitoraggio attento dei bisogni e con l’analisi dei risultati raggiunti. E soprattutto diffondendo la consapevolezza che il digitale è la chiave per migliorare il modo di lavorare e uno straordinario abilitatore di efficienza. Serve fare cultura, insomma, non solo “corsi”.
In questo ultimo anno abbiamo notato una più veloce diffusione di Spid. Lockdown e bonus hanno convinto molti utenti a dotarsi di un’identità digitale. Come rendere strutturale questo boom?
Anche qui si tratta di un tema culturale. È chiaro che se Spid viene usato solo come chiave di accesso “temporanea” – in attesa che riaprano tutti gli sportelli pubblici, ad esempio – o ancora come strumento per accedere ai bonus, presto la bolla esploderà. Per evitare che accada, anche qui, serve che l’utenza sia adeguatamente informata sulle effettive possibilità d’uso, nel lungo periodo. Bisogna creare cultura dell’innovazione e su questo fronte sono fondamentali le azioni che possono mettere in campo i Comuni che sono gli enti più vicini ai bisogni del cittadino. E anche il ruolo di soggetti aggregatori di servizi pubblici.
In che senso?
Tra gennaio e febbraio 2021 abbiamo notato un vertiginoso aumento, pari all’81% di questi soggetti: quelli accreditati Agid sono arrivati a 38. Si tratta di pubbliche amministrazioni o privati che offrono a terzi la possibilità di rendere accessibili tramite identità digitale i rispettivi servizi. Agevolano, dunque, l’ingresso nella federazione Spid dei fornitori che non ritengono conveniente attivare presso di loro la struttura necessaria per esporre i propri servizi in rete tramite l’autenticazione con lo Spid. In questi mesi sono aumentati in maniera così evidente proprio in vista della scadenza del 28 febbraio. E possono rappresentare un interessante driver di innovazione, soprattutto quando sarà pronta anche la convenzione Agid per gli aggregatori di servizi privati. Solo in quel momento si sarà raggiunto l’obiettivo di rendere Spid l’unica chiave di accesso alle prestazioni, pubbliche o private che siano, che era poi la missione per cui è nato. E in questo senso serve accelerare anche sui gestori di attributi qualificati: tutti i soggetti che hanno il potere di attestare qualifiche, stati personali, poteri di persone fisiche, come gli ordini professionali o le Camere di Commercio. L’ingresso di questi soggetti nella federazione Spid consente ai fornitori di servizi di verificare stati personali delle persone fisiche che accedono ai loro servizi in rete. Andando ad allargare il campo d’azione dell’identità digitale.