“Oggi la grande occasione per la pubblica amministrazione è di avere a disposizione le risorse, l’attenzione e la visibilità politica per realizzare la vera modernizzazione del settore. Ma per riuscirci c’è bisogno di incrementare le competenze informatiche, tecnologiche e organizzative, sia a livello apicale sia ai livelli operativi. Siamo di fronte da una parte alla necessità della PA di acquisire nuovi talenti e competenze, e dall’altra alla sfida per l’industria di essere attrezzata per far fronte alle nuove esigenze del mercato. Purtroppo, in questo momento il sistema educativo e formativo non alimenta in modo corretto e sufficiente questo circuito e il rischio è che si crei la tempesta perfetta. La PA è una realtà di servizi, e i servizi li fanno le persone: se non ripartiamo dalle persone il meccanismo non funzionerà”. A parlare è Pasquale Rongone, sales manager strategic and enterprise per il centro e sud Italia di Red Hat, che in questa intervista a CorCom analizza come il Piano nazionale di ripresa e resilienza varato dal governo possa rappresentare un punto di svolta per la digitalizzazione della PA.
Rongone, quali altre sfide ci si troverà ad affrontare, al di là della centralità del tema delle competenze?
Un secondo aspetto dal mio punto di vista fondamentale è capire come l’attività di procurement e la capacità di istituire forme di collaborazione possa essere messa in piedi con la velocità richiesta dal Pnrr. Il piano prefigura una collaborazione molto stretta tra pubblico e privato, caratterizzata da una grande flessibilità: ma per arrivare a questo obiettivo pubblico e privato devono essere messi in condizione di operare. Questo purtroppo si scontra con un processo normativo e di acquisto ancora lento e macchinoso. Ma al netto di questi aspetti, sul piano delle best practice e delle esperienze già maturate abbiamo visto proprio durante l’emergenza pandemia che la PA è molto avanti sul piano tecnologico. A dimostrarlo basti considerare il fatto che la pubblica amministrazione è stata in grado di mettere a lavorare centinaia di migliaia di persone da remoto in un paio di settimane, senza discontinuità di servizio drammatiche.
Cosa dimostra questa circostanza?
Direi che non era un risultato scontato, con l’esplosione della pandemia, che la pubblica amministrazione continuasse a funzionare anche durante i lockdown. E’ stato possibile perché l’ossatura per affrontare questo passaggio evidentemente c’era, anche per le risorse applicative: erogare servizi con un modello diverso da quello abituale è possibile soltanto se in campo ci sono già applicazioni che lo consentono. Se dovessi analizzare quello che è successo in questi mesi e negli ultimi anni, direi che abbiamo innestato tecnologie mature e avanzate su un modello organizzativo datato, quello gerarchico e burocratico della PA. Ora c’è da fare un altro salto: si deve rivedere il modello organizzativo insieme alle modalità di erogazione dei servizi. Lo sportello deve diventare un’app, dove entro con lo Spid e mi deve essere fornito l’equivalente in modalità elettronica del servizio che prima chiedevo in presenza. Un passaggio che indubbiamente potrà essere favorito dalle risorse messe in campo dal Pnrr.
Come sarà possibile compiere questo ulteriore passo?
Sul piano informatico la strada è già stata abbondantemente tracciata nel Pnrr: è fondamentale ripartire da un’evoluzione verso il cloud, non per “moda tecnologica”, ma perché dietro al cloud c’è il concetto di collaborazione aperta, flessibilità e velocità. Passare al cloud vuol dire ridurre la complessità, concentrarsi sul servizio e non sull’infrastruttura. Il contesto cloud abiliterà i canali digitali da utilizzare per facilitare la collaborazione tra enti e degli enti con le aziende. La tecnologia abilitante esiste già, ma deve confluire in un modello che sia collaborativo: questo approccio fa parte del Dna di chi come noi lavora nell’open source. Ora si tratterà di esportare un modello di condivisione, facendo collaborare tanti soggetti diversi e focalizzarli sui progetti, contando su know-how ed esperienze comuni.
C’è ancora la resistenza al cambiamento che prima della pandemia sembrava il problema principale?
E’ un fattore, insieme alla viscosità organizzativa, alla poca abitudine a modificare approcci, situazioni e processi. Ma devo dire che la pandemia ha dato una scossa: ha fatto capire anche alle realtà un po’ più conservative che dobbiamo fare un balzo in avanti. Come Paese ci siamo resi conto che abbiamo retto abbastanza bene l’urto dell’emergenza e che siamo stati in grado di cambiare. Ora molte barriere sono cadute, non mi aspetto più la resistenza. La criticità viene però dal fatto che per muovere meccanismi complessi come quelli della PA c’è bisogno di sforzo e attenzione, oltre che di una strategia chiara. Su questo aspetto probabilmente si deve fare di più e questo è il lavoro della politica. A livello operativo e burocratico molti concetti sono stati abbondantemente metabolizzati: il fatto che non sia necessario andare tutti i giorni in ufficio, che si possa fare a meno della carta, che sia importante interagire con strumenti digitali: si tratta di una serie di consapevolezze che ormai possiamo dare per radicate.
Qual è in questo contesto il ruolo delle aziende? Come possono contribuire a velocizzare la digitalizzazione della PA?
Noi siamo un’azienda tecnologica e produciamo le tecnologie abilitanti per la transizione al cloud. A questo uniamo la nostra esperienza di riuscire a fare innovazione in contesti complessi. Possiamo essere utili per dimostrare come si possano ottenere grandi vantaggi economici e la velocizzazione i processi produttivi grazie al riuso delle tecnologie, esportando in ambito PA il nostro modello di produzione del software. Concetti come quello dei marketplace, che molti operatori offrono, potrebbero essere estremamente utili. Come anche il fatto che determinati servizi siano già stati sviluppati in altri contesti e possano essere condivisi con modalità standardizzate e interfacce definite. Ma per riuscirci si devono costruire dei modelli, e questo a livello operativo non è banale. I poli strategici nazionali sembrano essere legati ad ambiti omogenei, per tipologia di servizio o di missione: quello che io mi aspetterei è che una pluralità di soggetti si concentri su ciò che è necessario fare per aree tematiche, in modo da arrivare a definire servizi di base omogenei per tutti, standardizzarli, catalogarli e renderli disponibili per essere facilmente accessibili. Di sicuro spingere su questo concetto consentirebbe di accelerare la messa a terra dei servizi e contribuirebbe a ridurre i costi.
Quale è il ruolo di Red Hat in questo scenario, ci sono best practice che avete già in campo con la PA?
Stiamo collaborando a vari progetti di trasformazione digitale, sia con la PA centrale sia a livello locale per il percorso di evoluzione al cloud. Si comincia spesso con un cloud privato, poi si esplorano modelli ibridi, ma la cosa interessante è che queste attività ci portano sempre più sul mission critical delle organizzazioni con cui collaboriamo. Forniamo tecnologie di base, come la nostra piattaforma OpenShift, e stiamo lavorando intensamente su progetti di automazione, perché il cloud è un mezzo potente, ma complesso e richiede una forma di automazione spinta per poterne sfruttare al meglio le potenzialità. Solo per fare un esempio, siamo stati coinvolti nell’organizzazione della campagna vaccinale nazionale per la gestione logistica e dell’erogazione dei vaccini. In questo, come in tanti altri contesti, ci siamo accorti che l’utilizzo di queste tecnologie ha permesso di ottenere una elasticità e una grande capacità di reazione altrimenti impensabile.
Quali priorità vi siete dati per la seconda metà dell’anno e per il 2022?
Le priorità sono legate al PNRR. Scrivere un piano è in un certo senso “semplice”, ma per metterlo a terra servono azioni. Sarà fondamentale capire quali saranno le iniziative che partiranno in ambito PA, in termini di gare e di processi di varia natura: revisioni organizzative e normative, le grandi riforme. L’aspettativa è che questa attività di messa a terra del piano parta durante e subito dopo l’estate, con le gare infrastrutturali e quelle per i servizi di migrazione. In vista di questa sfida bisognerà mettere a punto il motore per far partire il processo di trasformazione e ognuno dovrà capire come potrà collocarsi e che tipo di contributo potrà dare. Queste gare avranno durate, impatti e volumi di attività significativi: i numeri sono noti, si tratta di centinaia di milioni di euro, e questo per le imprese significherà affrontare sfide importanti. Non ci sarà un player singolo che potrà occuparsi di tutto, ma in ogni caso si imporrà una selezione. Per semplificare, direi che da una parte sarà necessaria una modalità di rappresentare la domanda in modo coerente e strutturato, e dall’altra che l’industria si strutturi nel modo migliore per rispondere. Il livello di ingaggio per le aziende sarà molto alto, farsi trovare pronti è un tema centrale per fare fronte a una richiesta per la quale nessuno può dire di essere già attrezzato. Immagino che potranno realizzarsi anche progetti di collaborazione tra aziende, uscendo da certi schemi e adottando il modello della coopetition. Quanto a Red Hat, nei contesti ibridi ci siamo nati, è il nostro Dna, e quindi siamo pronti ad accettare la sfida. Basiamo il nostro successo sul concetto di collaborazione aperta, e probabilmente questo costituisce per noi il principale elemento di vantaggio.