Le donne dell’hi-tech hanno grandi opportunità di creare start-up digitali, ma ce ne sono ancora troppo poche laureate in ingegneria informatica o altre materie tecnologiche. È la conclusione a cui è giunta la vicepresidente di Facebook, Carolyn Everson, invitata con un gruppo di alte dirigenti americane al programma “Women to Watch” trasmesso da Bloomberg Television.
Le partecipanti hanno scattato una fotografia del rapporto tra donne e nuove tecnologie negli Usa, Paese dove spiccano ai vertici di aziende personaggi come Marissa Mayer, ceo di Yahoo (assunta quando era incinta e oggi madre di un bimbo) o Virginia “Ginni” M. Rometty, presidente e amministratore delegato di Ibm. Nonostante questi esempi, la Computing Research Association sottolinea che negli Usa le laureate in ingegneria informatica l’anno scorso erano solo il 12%, una quota in discesa rispetto al 14% di cinque anni fa.
Sono invece in crescita quelle che occupano posizioni dirigenziali nella Silicon Valley. “Per la prima volta – ha detto Theresia Gouw Ranzetta, venture capitalist di Accel Partners – vedo fondatori di aziende uomini, con il loro team composto da maschi, che cercano esplicitamente di portare donne nel gruppo dirigenziale o tra i fondatori. Questo perché dicono: i due terzi dei miei utenti, e i più preziosi, sono donne, perciò è necessario averne una rappresentanza nel consiglio di amministrazione”.
Jessica Herrin, fondatrice della start up di moda Stella & Dot, ha aggiunto: “Credo davvero che i venture capitalists siano interessati a buone idee imprenditoriali, indipendentemente dal sesso di chi le propone, basta che siano efficaci e solide”.
Per cercare di ovviare alla mancanza di donne ingegneri due ex laureate in ingegneria, Maria Klawe, presidente dell’Harvey Mudd College, e Pooja Sankar, fondatrice di Piazza Technologies, hanno lanciato in questi giorni un programma chiamato WitsOn (Women in Technology Sharing Online). Scopo: mettere in collegamento le donne che hanno conseguito lauree in materie tecnologiche con i potenziali mentori all’interno delle industrie. Ma persino le americane, solitamente ottimiste, non nascondono il loro scetticismo: “Ci vorranno dieci anni o più – commenta Ranzetta – perché diventiamo più rappresentative”.