“I dubbi su come e dove proseguire lo smart working? Sono legittimi”. Francesco Seghezzi, presidente della fondazione Adapt, spiega a CorCom perché il dibattito di queste settimane, che si è aperto dopo l’annuncio del ministro Brunetta di far rientrare i dipendenti pubblici in ufficio, può essere utile a capire come trasformare l’esperienza iniziata con la pandemia in uno strumento strategico a sostegno della produttività di imprese e amministrazioni.
Seghezzi, dopo le parole di Brunetta sul fatto che lo smart working non possa essere modello per il futuro, il dibattito si è polarizzato. Lei che idea si è fatto?
Facciamo un passo indietro. Nella PA non si possono mettere i dipendenti in cassa integrazione: lo smart working è stata l’unica sceta possibile nei mesi del lockdown. Ma era chiaro, fin da subito, che molti lavoratori non avrebbero potuto continuare a svolgere le loro attività; penso a quelli dei musei o agli operatori di sportelli non ancora digitalizzati. E ovviamente qualche servizio ha subito rallentamenti.
Ha ragione Brunetta, allora?
Non si tratta di avere torto o ragione. Si tratta di fare una valutazione seria sulle aree e le attività dove lo smart working ha funzionato e dove invece non è riuscito a garantire la continuità operativa. Pensare che sia sufficiente mantenerlo così com’è, sia nel pubblico sia nel privato, non rende un buon servizio al Paese e nemmeno allo stesso lavoro agile. Per prendere sul serio questa sfida serve riconoscerne luci e ombre senza pensare che evidenziare criticità coincida, come troppo spesso avviene, con l’affossamento dello strumento. L’Italia – lo certifica l’Ocse – è uno dei Paesi con maggiori rigidità organizzative. In questo senso sposare tesi deterministiche sui benefici certi così come degli svantaggidel lavoro da remoto è azzardato.
Però anche lei ammette che qualcosa non ha funzionato, specie nella PA…
Non solo nella PA. Ci sono anche nel privato dei settori dove lo smart working non è applicabile, come nella maggior parte dei reparti di produzione. Nei settori produttivi e nelle aree di attività dove invece è applicabile bisogna accompagnarne l’adozione con misure innovative sul fronte dell’organizzazione. Per il lavoro agile serve un modello organizzativo che smaterializzi i luoghi – si può lavorare ovunque – e soprattutto destrutturi il tempo: non si lavora più tot di ore ma per obiettivi. È quello il vero spazio di libertà dello smart working ma anche il vero punto dolente.
Siamo capaci di farlo nel pubblico, ma anche nel privato?
Probabilmente sì ma serve gradualità e sperimentazione. E anche un grande investimento sulle competenze. Inoltre è essenziale studiare i dati di produttività nelle singole aree e, nella PA, garantire autonomia agli enti. Lo dico perché ci sono dei Comuni dove lo smart working ha funzionato bene dopo l’adozione dei Pola, i piani operativi del lavoro agile. Quindi gradualità, sperimentazione, monitoraggio sono le parole chiave.
La legge 81/2017 regola lo smart working tramite accordo individuale mentre gran parte dei sindacati e lo stesso Brunetta spingono perché la regolazione avvenga a livello di contratto nazionale. Lei è d’accordo?
Dipende molto dal livello di regolazione che si vuole. Certo è che se le norme nel Ccnl sono troppo stringenti si rischia di snaturare lo strumento che è flessibile per natura e deve andare incontro alle necessità di aziende e lavoratori: come si fa, ad esempio, a normare il diritto alla disconnessione o alla mobilità per tutte le aziende di un singolo comparto quando le necessità sono diverse e per diversi motivi? Serve lasciare spazio alla contrattazione di secondo livello ad integrazione di quanto previsto dai contratti nazionali.