Italia a rischio analfabetismo 4.0. L’allarme arriva dagli Stati Generali del Lavoro, che quest’anno a Torino hanno ospitato il primo C8, il primo forum pubblico dei Competence Center, gli hub della formazione tecnologica d’avanguardia voluta dal Mise.
Quello che è emerso è che le risorse e la volontà del Governo ci sono – basti pensare al Pnrr – ma l’impresa italiana, per lo più piccola e media, non ha tempo per formare
L’evento ha messo a fuoco in modo chiaro i problemi che il Paese deve affrontare per essere all’altezza del nuovo mondo: la cifra piccola-media che contraddistingue la nostra industria e che, grazie alle doti di flessibilità, rapidità o operosità connaturate alla piccola dimensione, è uscita meglio di aziende più strutturate dalla crisi pandemica, sconta il limite del think small quando si tratta di formazione. La ripresa incalza e le imprese faticano a tener testa ai ritmi produttivi, quindi o ignorano completamente il rischio di inadeguatezza delle proprie competenze al futuro immediato oppure sognano dipendenti quantici in grado di lavorare e studiare contemporaneamente. Tradotto, non c’è tempo per studiare. Ma è anche una questione di risorse. Per decidere di formare i dipendenti bisogna comprendere che ce n’è bisogno, quindi servono risorse di visione e di change management che non ci sono.
Il ruolo dei competence center
I competence center nascono in Italia con questa missione: trasferire alle imprese italiane competenze sulle nuove tecnologie, formazione di tecnici e di management, orientamento e consulenza per comprendere in quale direzione focalizzare lo sforzo formativo o ri-formativo e, se necessario, linee produttive pilota per un test before invest sulle innovazioni. Tutto questo è possibile grazie all’ecosistema di cui si sostanziano i Competence Center, catalizzatori di Università, Centri di Ricerca, Istituti Tecnici Superiori, Aziende socie, Aziende clienti e finanziatori. Lontano però dal côté accademico, i Competence Center affinano il proprio intervento formativo e consulenziale sulla progettualità imprenditoriale, quasi una formazione su misura, oltre alla possibilità di testare le innovazioni in un contesto protetto e cofinanziato.
Nei prossimi 30 anni il tasso di automazione passerà dal 33% al 50%. Molti interpretano questa diffusione delle tecnologie robotiche, del machine learning e dell’intelligenza artificiale come una rivoluzione che costerà il lavoro a milioni di italiani.
In realtà l’impatto potrebbe essere di gran lunga inferiore se le aziende decidessero di aggiornare le competenze dei propri dipendenti, se non tutti almeno quelli che possono essere aggiornati. Tra vent’anni nemmeno il magazziniere continuerà a fare il suo lavoro come lo fa oggi. O l’amministrativo, o il manager.
Mancano infatti ingegneri, dicono le aziende, perché quei pochi che ci sono e non si sono trasferiti all’estero sono agganciati dalle aziende prima di laurearsi. Ieri raccontavamo che mancano carpentieri, fabbri, meccanici, saldatori e termoidraulici e si incolpavano le università e gli enti formativi di non favorire un incontro tra esigenze delle imprese e formazione. Tutto vero. Ma questa mattina scopriamo che nemmeno le imprese assolvono il proprio compito di aggiornare le competenze dei propri dipendenti, il che non è un compito sociale ma un obiettivo imprenditoriale. Tanto che qualche azienda, esasperata, pensa a comprare una piccola azienda tecnologica invece di cercare invano gli ingegneri che le servono. Costa ma è già tutto pronto, chiavi in mano.
E non è solo quesitone di ingegneri e di tecnici. Tutti dovranno confrontarsi con il mondo dei dati, la nuova ricchezza, anche e soprattutto il personale amministrativo, gestendoli con cautela per tutelarli da una nuova anonima sequestri: il cybercrime. Se i dati sono la nuova ricchezza delle aziende, la tutela dei dati è la nuova cassaforte che passa per la formazione delle persone che li gestiscono. La cyber security non è questione di compliance ma un fattore abilitante di corretta gestione del rischio. Inoltre molte aziende dispongono di una quantità invidiabile di dati ma non sanno cosa farne. Anche in questo senso i competence center servono come consulenti favorendo una maggiore competitività sul mercato globale.
Risalendo la catena della formazione lungo la catena decisionale, serve quindi re-skilling e up-skilling dei dipendenti, tecnici e progettisti, ma anche formazione del personale amministrativo che gestisce i dati e del management che deve gestire il cambiamento. Poi si arriva al vertice e il dubbio è legittimo: non sarà che l’età media dei nostri piccoli imprenditori lavori contro un aggiornamento delle competenze della nostra industria? Forse se il management si allinea sarà in grado di stuzzicare la curiosità imprenditoriale di chi sta sopra che vedrà, nell’offerta di un test before invest su nuove linee produttive, uno stimolo verso il futuro.
Intelligenza artificiale driver di crescita
L’evento Stati Generali del Lavoro ha focalizzato l’attenzione anche sul ruolo che l’intelligenza artificiale può svolgere per accelerare la digital transformation.
“Non bisogna avere paura dell’Intelligenza Artificiale ma della scarsa intelligenza naturale” dice con schiettezza toscana Piero Poccianti, presidente AixIA., Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale.
“I nostri ricercatori sono meno numerosi che nel resto d’Europa, però se guardiamo agli articoli pubblicati e citati siamo al terzo posto. Pochi, quindi ma buoni. Anche il mondo delle startup è vivace ma non ci sono fondi, nonostante l’incredibile quantità di liquidità del nostro Paese”. Sul numero di posti di lavoro che possono saltare a causa dell’Ai sono stati fatti innumerevoli studi, anche promossi dallo stesso Worl Economic Forum, con cifre di anno in anno ballerine. In realtà non lo sa nessuno, ma “come già successo per la meccanizzazione, le nuove tecnologie e l’Intelligenza Artificiale serviranno per permettere all’uomo di lavorare meno e meglio”. La grande responsabilità è nelle mani di chi forma le macchine che sono catalizzatori delle nostre storture culturali, e di chi forma i giovani. Se uniamo volontà ed etica è possibile che portino più bene che male.
“Sono presidente di Quest.it, una startup che sta facendo il salto a scaleup”, interviene Marco Landi, presidente di EuropIA ed ex presidente Apple. “Abbiamo bisogno di assumere 100 collaboratori e non li troviamo. Nello stesso tempo i nostri pochi talenti per essere finanziati devono andare in California”. L’ecosistema che esiste negli Stati Uniti concilia Università, Ricerca, Imprese e Finanziamenti. Da noi questo non esiste ma nemmeno la volontà di fare del nostro meglio. “Leggetevi il Pnrr, quanta attenzione ci trovate nelle nuove tecnologie e nell’AI? Abbiamo fatto un appello al Presidente Draghi. Non abbiamo ancora avuto risposta.”
Difficile dire dove andrà il mondo del lavoro. “Quello che è certo è che il mondo sarà sempre più dominato dalle tecnologie e bisogna prepararsi. Dobbiamo lavorare sulla Scuola e subito: certi lavori spariranno ma se ne creeranno di nuovi per i quali non c’è preparazione. Inoltre la ricchezza in più che creerà la AI deve garantire la sopravvivenza di quei lavoratori che non si potranno riqualificare e perderanno il lavoro e questo è un problema sociale che spetta al governo affrontare”.
“Temo che dovremo cambiare il modello socioeconomico” incalza Piero Poccianti. “Il capitalismo per un po’ ha fatto bene il suo lavoro ma se lo stravolgiamo può diventare pericoloso. Il profitto, il valore dell’azione, deve restare un mezzo non un fine. Quali valori stiamo acclamando nei nostri leader? Manager, politici il cui unico fine è farsi eleggere e far dimenticare in fretta i propri errori. E noi che siamo nati per imparare dagli errori così perdiamo la nostra intelligenza di specie”.
Per essere un buon leader ci vuole etica e coraggio, per essere un grande manager ci vuole visione ma anche la capacità di mettere tutto in gioco e fare le scelte necessarie. Marco Landi, ex presidente Apple quando Steve Jobbs rientrò in azienda, ricorda il suo motto “Jump the fence, salta l’ostacolo o salta la recinzione. Nel suo caso specifico significava saltare il muro della sua propria creazione, McIntosh, quando Microsoft aveva il 90% del mercato, e puntare tutto sull’ipod.
Ma le nuove tecnologie non sono solo una protesi all’intelligenza umana, sono anche, così come stanno le cose, una croce per l’ambiente. “Ogni dispositivo ha una vita media di 5/10 anni e stiamo affogando dentro i dispositivi” dice Piero Poccianti. “Ogni batteria in compenso ha una vita media di 1 o 2 anni. Come smaltire tutto questo? Ogni megabyte scarica nell’ambiente 0.6 gr. di CO2 e il cloud, così com’è, è un’enorme minaccia se non troviamo il modo di decentralizzare, di intermediare, di scaricare il processo dell’intelligenza su più livelli per avvicinarla all’utilizzatore. Ogni volta che chiedo qualcosa ad Alexa faccio rimbalzare la mia richiesta e la sua risposta in un andirivieni di dati da me al cloud e dal cloud a me. Basta fare due calcoli per capire che l’enorme quantità di dati scaricati, di sms e di mail ci stanno scavando la fossa. Per questo rivoluzione digitale e rivoluzione ecologica devono viaggiare insieme”.
La vera domanda, secondo Marco Landi, non è tanto come uscirne. Secondo Landi non siamo ancora entrati. “Se i dati sono il petrolio del futuro bisogna fare in modo che non inquinino come il petrolio. Bisogna capire come gestire l’enorme quantità di dati, di chi è la proprietà dei dati e come ridurre l’inquinamento che genera lo scambio di dati. Bisogna continuare a parlarne in conferenze come questa e coinvolgere i Governi. Solo continuando a parlarne possiamo avere l’AI che vogliamo: inclusiva, responsabile, sostenibile.