LA CAUSA ANTITRUST

Google, gli Usa rincarano la dose: nuove denunce nel dossier advertising

Dieci procuratori generali repubblicani guidati dal Texas contestano l’utilizzo di tattiche monopolistiche e coercitive con gli inserzionisti e l’uso di un “programma segreto” per far aggiudicare gli appalti ai partner di Google Ads

Pubblicato il 15 Nov 2021

google

Dopo la conferma della multa antitrust da 2,3 miliardi di euro in Ue per Google arriva una nuova tegola: gli Stati Usa che hanno intentato causa contro Big G per presunto abuso sul mercato delle ads hanno rincarato le accuse aggiungendo tra le denunce “l’utilizzo di tattiche monopolistiche e coercitive con gli inserzionisti”. Tali tattiche, continua la causa, rientrano nelle modalità con cui Google cerca di difendere il suo dominio sul mercato della pubblicità online e di scongiurare l’ascesa di concorrenti.

La causa è guidata dal procuratore generale del Texas, Ken Paxton ed è stata depositata da dieci Stati Repubblicani. L’azione legale si fonda sull’accusa che Google abbia abusato della posizione sul mercato della pubblicità online e abbia illecitamente cooperato con Facebook per ampliare il suo potere dominante.

Dito puntato su Project Bernanke: aste delle ads “manovrate”?

Gli Stati chiedono che il colosso di Mountain View li risarcisca dei danni causati. Inoltre, l’accusa fa appello al giudice perché imponga rimedi “strutturali”, ovvero modifiche all’organizzazione delle attività di Google – fondamentalmente, la dismissione di alcuni asset.

La causa mette in luce, riporta Cnbc.com, l‘utilizzo da parte di Google di un programma segreto chiamato “Project Bernanke” lanciato nel 2013 grazie al quale l’azienda avrebbe sfruttato i dati delle aste per garantirsi un vantaggio nell’acquisto delle ads. Per esempio, sostiene l’accusa, nel 2015 con questo programma Google avrebbe messo insieme il denaro raccolto con le seconde offerte più alte nelle aste degli inserzionisti e speso poi la somma per gonfiare le offerte degli inserzionisti aderenti a Google Ads che altrimenti avrebbero probabilmente perso le aste.

L’accordo con Facebook sull’acquisto della pubblicità

La causa cita Facebook come “co-cospiratore”, ma il social media che ora si chiama Meta non è parte in causa. L’accusa afferma che Google si è alleata con Facebook per evitare che la rivale le facesse concorrenza sulle ads. Nel 2017 Google era entrata in allarme perché Facebook stava valutando un progetto di header bidding, un modo di acquistare le pubblicità che avrebbe permesso agli editori di slegarsi dalla dipendenza dalle piattaforme di Google. Il progetto di Facebook è stato tuttavia accantonato dopo l’accordo raggiunto dalle due aziende nel 2018 e con cui Facebook è diventata partner dell’Open Bidding project di Google. Questo progetto consente la convivenza col mercato delle ads di Big G di altri mercati concorrenti, come quello di Facebook, che però devono pagare una fee a Google quando una loro proposta viene accettata e si aggiudicano delle inserzioni.

A questo proposito Google ha già replicato che l’accordo con Facebook è stato reso pubblico e si limita a permettere al social media e ai suoi inserzionisti di partecipare ad Open Bidding;  Google non manipola le aste delle ads a favore di Facebook.

Fuoco incrociato negli Stati Uniti

Negli Stati Uniti contro Google c’è anche la causa antitrust guidata da Colorado e Nebraska che hanno riunito un gruppo ancora più numeroso di Stati e territori americani (38). L’azione legale va oltre il dominio sul mercato della pubblicità per allargarsi a numerosi ambiti dell’attività di Big G. Tra questi c’è la ricerca online, su cui si focalizza la causa avviata a ottobre del 2020 dal dipartimento di Giustizia.

La multa confermata in Europa sul servizio Shopping

La scorsa settimana la Corte di giustizia dell’Unione europea ha respinto nel suo complesso il ricorso di Google contro la decisione dell’Antitrust europeo che ha inflitto un’ammenda di 2,42 miliardi nel 2017 per abuso di posizione dominante nel servizio di comparazione dei prezzi (Google Shopping). La Commissione Ue aveva riscontrato da parte del colosso americano una violazione delle norme europee affermando che Google ha favorito il proprio servizio di comparazione dei prodotti rispetto agli analoghi servizi di concorrenti.

Il Tribunale dell’Ue ha confermato l’analisi della Commissione e l’ammontare della multa rigettando le motivazioni su cui Google aveva basato l’appello e confermando che, a causa del “pregiudizio degli algoritmi di classificazione dei risultati di ricerca“, Google non ha basato sul merito la concorrenza ai servizi rivali.

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