Che lo si veda da un’angolazione piuttosto che da un’altra, da due anni a questa parte, lo smart working fa sempre la stessa medesima notizia.
In un contesto digitale dove la pubblicazione dell’ultima e più aggiornata informazione desta l’attenzione di tutti e, soprattutto, il pullulare di “like” virtuali, c’è da chiedersi cosa ha ancora da dire questa pandemia al mondo del lavoro. Evidentemente ancora tanto, dal momento che – ad oggi – nessuna azione è stata ancora intrapresa dal legislatore italiano (così come anche da quello europeo/internazionale) per meglio inquadrare una fattispecie contrattuale che, come ormai sappiamo tutti, in estrema emergenza è stata – anche giustamente – forzatamente ricondotta a quella dello “smart working” (normato per la prima volta con la L. 81/2017) ma che, allo stato pratico, ben poco ha, ora più che mai, a che vedere con essa.
E se, ormai, stancamente si rincorrono tra amici e conoscenti domande del tipo “Oggi sei in smart? Oggi fai smart?”, un esperto del settore vorrebbe puntualmente fare chiarezza e, piuttosto, precisare che ciò che viene comunemente chiamato smart working il più delle volte corrisponde ad un istituto contrattuale diverso, meglio noto come telelavoro, ove la flessibilità tipica dello smart working si riduce notevolmente, limitandosi per lo più al differente luogo in cui è consentito lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Il primo grande nodo da sciogliere è dunque proprio il linguaggio perché soltanto un uso corretto dei termini linguistici consente di identificare fattispecie e istituti giuridici tra loro profondamente differenti e regolati da normative – sia di legge che pattizie – non assolutamente coincidenti.
Ma di nodi ce ne sono altri e i più intricati sono quelli legati al concreto atteggiarsi di questa modalità di lavoro. Solo per citarne alcuni si può far riferimento al tema della salute e sicurezza, ove si osserva una “riduzione” di responsabilità da parte del datore di lavoro, a fronte di un sistema sanzionatorio che in generale punisce severamente l’inadempimento delle obbligazioni in tale materia; a quello della tutela della riservatezza dei dati a discapito delle aziende (vista l’improvvisazione con strumenti informatici e applicazioni probabilmente non adeguati a una copertura “universale”); a quello dei costi di connessione (internet, elettricità etc.), rispetto ai quali non vi è chiarezza su chi debba sostenerli; a quello dell’istituto della trasferta e dei relativi rimborsi; a quello del rientro in sede; a quello del diritto di recesso (che rischia gravemente di sovrapporsi al ben diverso recesso dal rapporto di lavoro in essere e non dalla modalità agile); al tema del fatidico diritto alla disconnessione (che deve essere azionato proprio dal dipendente, ammesso che lo voglia). Ed ancora, giova menzionare le problematiche inerenti alla valutazione della performance dei propri dipendenti; quelle relative ai nuovi livelli di management e ai riporti gerarchici, e in ultima analisi all’esercizio del potere di controllo da parte del datore di lavoro e al conseguente concetto di “codice disciplinare” (da rivedersi in toto).
Per non parlare dei diritti collettivi e della definizione di “sede” con tutte le conseguenze a seguire, che hanno generato l’illusione di qualche operatore del settore (che probabilmente non aspettava altro) di credere che attraverso questa modalità di lavoro non sia neanche più necessario aprire una sede in Italia o una posizione previdenziale.
Ebbene potremo effettivamente dare una vera notizia sullo smart working quando finalmente tornerà a occupare nel nostro ordinamento giuridico il posto e l’inquadramento conferitogli dalla norma di riferimento. E sarà davvero una bella e “nuova” notizia quando sarà possibile dare un nome proprio all’attuale situazione giuridica di fatto venutasi a creare in Italia, con una presa di coscienza di tutte le implicazioni che ne derivano nel mondo del diritto del lavoro anche a livello internazionale.