Google ci sta spogliando sempre più della nostra privacy: lo sostiene un documentario sul colosso di Mountain View proiettato in questi giorni al Sundance Film Festival, rassegna del cinema indipendente ideata da Robert Redford che si svolge ogni anno a Salt Lake City (Utah).
Intitolata “Terms and conditions may apply” (”Termini e condizioni eventuali da richiedere”), l’opera diretta da Hoback Cullen è incentrata sull’evoluzione nel tempo della privacy policy, peraltro conservate in un archivio che l’azienda ha messo online a disposizione di tutti gli utenti. La tesi del regista è che, con gli anni, si è perso l’originario tabù per cui i cooky installati dal motore di ricerca potevano segnalare quante volte un medesimo computer si collegava senza attribuire alla macchina un nome e cognome. Oggi dovrebbe essere ancora così, ma, a quanto emerge dal documentario, tutto sembra costruito perché le connessioni non siano anonime. Servizi quali Google+ o “Search, plus your world” permettono a BigG di perfezionare il nostro identikit, consentendo così agli inserzionisti di propinarci messaggi pubblicitari sempre più tagliati su misura per ogni utente.
Cullen sostiene che Google è partita con il piede giusto sulla tutela dei dati personali, ma aggiunge che “quando i margini di profitto sono in diretta opposizione con i principi, a volte quei principi soffrono”. Per il momento dal re dei motori di ricerca non è arrivato alcun commento ufficiale.
D’altra parte il documentario fa intendere che, se Google, Facebook o Microsoft si stanno avviando su una strada che limiterebbe sempre più la privacy dell’utente, una parte di responsabilità è da addebitare anche al governo statunitense. In particolare il Patriot Act, legge votata all’indomani dell’11 settembre 2001, avrebbe contribuito alla perdita dell’anonimato su Internet, ovviamente a fini anti-terroristici.