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Telelavoro, ricetta anti-crisi

Si potrebbero ridurre sprechi e disoccupazione. Ma c’è bisogno di programmi strutturati

Pubblicato il 27 Gen 2013

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Come emerge da una serie di indagini condotte da Federmanager in collaborazione con l’Università di Tor Vergata e Unindustria, l’applicazione di modalità di telelavoro rappresenta, in Italia, una soluzione del tutto marginale. Rispetto a quanto avviene in altri paesi dell’Europa del nord o negli Usa – dove le percentuali di attivazione di criteri di telelavoro sono fra il 10 e il 20% – ci attestiamo fra l’ 1,5 e il 2% della forza lavoro attiva.
Il nostro sistema produttivo, formato prevalentemente da medie e piccole imprese e caratterizzato da un modello organizzativo della PA estremamente burocratizzato, non favorisce l’applicazione del telelavoro. Il dato che più colpisce è quello che vede il nostro Paese fermo, negli ultimi dieci anni, su posizioni marginali rispetto ad una costante crescita del fenomeno in Paesi non propriamente a vocazione industriale quali Grecia, Portogallo, Romania e in generale l’area dell’est europeo.


Due le ragioni principali che determinano il gap: la prima è di tipo culturale, la seconda tecnologica. In Italia il lavoro da remoto è considerato dal datore di lavoro un’attività su cui è difficile esercitare azioni di controllo mentre da parte del lavoratore è generalmente considerato come una modalità applicabile ad aree marginali e di scarso contenuto professionale. La normativa non aiuta se si considera che solo dal 2002 i contratti collettivi di lavoro hanno esteso anche alla fattispecie in questione le norme che regolano le tradizionali attività lavorative. Se è vero che il datore di lavoro ha privilegiato e privilegia la presenza del lavoratore presso l’ufficio o l’unità produttiva è analogamente vero che i sindacati di categoria hanno a loro volta avanzato forti resistenze verso forme di decentramento produttivo nel timore di perdere un controllo diretto della base sindacale. Eppure i lavoratori che possono avvalersi di un programma di telelavoro godono di una molteplicità di vantaggi a partire dall’incremento della soddisfazione: sono soggetti ad una pressione inferiore, si sentono “attivi” e apprezzano di più il loro lavoro rispetto a quando lo svolgono in ufficio. La job satisfaction è legata anche al fatto che possono ottenere un controllo maggiore nel bilanciare il rapporto lavoro-famiglia. Un secondo beneficio è il risparmio di tempo e denaro derivante dalla diminuzione dei costi e dei tempi per andare in ufficio – si può arrivare a risparmiare oltre il 10% del reddito per spese di trasporto e assistenza familiare .


Da segnalare poi l’aumento della produttività; i lavoratori che svolgono i loro compiti lontano dal luogo tipico di lavoro sono per lo più soggetti a meno distrazioni. L’aumento della produttività è un effetto anche della minore vulnerabilità e coinvolgimento delle politiche aziendali e si traduce in più numerose opportunità di carriera.
Ma c’è il problema della mancanza e/o carenza di infrastrutture tecnologiche. E sono ancora troppo poche le aziende che nel nostro Paese hanno avviato e consolidato processi di innovazione al fine di rendere il proprio sistema produttivo adeguato alla concorrenza e alla competizione internazionale. Scontiamo ancora forti ritardi per quanto riguarda gli investimenti in Ict e ancor più grave è il ritardo nel potenziamento delle reti principali di Tlc. Attraverso una convinta iniziativa politica,supportata anche dalle organizzazioni sindacali – che vedrebbero nell’attuazione di programmi strutturati di telelavoro una ricetta per la stabilizzazione del lavoro e la conseguente riduzione dei livelli di disoccupazione – si potrebbero raggiungere percentuali di applicazione di soluzioni di telelavoro intorno al 7-8%.

I tempi per l’organizzazione dei nuovi processi produttivi è stimabile in circa 12-18 mesi, periodo in cui quasi 1,5 milioni di lavoratori della PA, dell’Industria e dei Servizi potrebbero essere totalmente attivi in termini di erogazione di prestazioni attraverso modalità innovative di vario tipo. Si può calcolare una riduzione dei costi di produzione per unità occupata intorno ai 150 euro al mese, al netto degli investimenti necessari per modificare i processi organizzativi e aggiornare l’infrastruttura tecnologica abilitante. Ciò corrisponde a un montante di circa 200 milioni al mese – circa 2,5 miliardi l’anno. In conclusione, un serio avvio di una politica che favorisca il telelavoro non sarà la panacea di tutti i mali, ma potrebbe rappresentare un contributo importante in un’ottica di riduzione degli sprechi, innalzamento dei livelli produttivi, modernizzazione del Paese e aumento della qualità della vita.

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