“Demandare a un internet provider un dovere-potere di verifica preventiva appare una scelta da valutare con particolare attenzione in quanto non scevra da rischi poiché potrebbe finire per collidere contro forme di libera manifestazione del pensiero”. Lo scrivono i giudici della Corte d’appello di Milano nelle motivazioni con cui il 21 dicembre scorso hanno assolto – “perché il fatto non sussiste” – i tre manager di Google imputati per violazione della privacy in relazione al video, caricato sul motore di ricerca, che mostrava un minorenne disabile insultato dai compagni di scuola.
“Va esclusa per il prestatore di servizi che fornisca hosting attivo – spiegano i giudici – la possibilità ipso facto di procedere a una efficace verifica preventiva di tutto il materiale immesso dagli utenti”. Secondo i giudici di secondo grado, “tale comportamento non può essere ritenuto doveroso in quanto non esigibile per la complessità tecnica di un controllo automatico”. “Non può non vedersi – insistono i giudici – come l’obbligo del soggetto web di impedire l’evento diffamatorio imporrebbe allo stesso un filtro preventivo su tutti i dati immessi in rete, che finirebbe per alterarne la sua funzionalita'”. In primo grado i tre manager, David Carl Drummond, George De los Reues e Peter Fleischer erano stati condannati a sei mesi (pena sospesa) per violazione della privacy. Il video, che riprendeva un minorenne disabile vessato dai compgani, fu caricato su Google l’8 settembre 2006 e rimase cliccatissimo nella sezione “video più divertenti” fino al sette novembre, quando fu rimossso.
La sentenza all’epoca suscitò molto clamore a livello internazionale perché si trattava del primo processo, a livello mondiale, ai responsabili di un provider di internet per la pubblicazione di contenuti sul web. E il verdetto di condanna venne duramente criticato dall’ambasciatore americano a Roma, David Thorne, e anche dalla stampa “a stelle e strisce” che aveva parlato di un “regalo” a regimi come quello iraniano e cinese, contrari all’internet libero.
Lo scorso 21 dicembre, però, i giudici della prima sezione penale della Corte d’Appello (collegio Malacarne-Arienti-Milanesi) hanno assolto i tre manager “perché il fatto non sussiste” e anche un quarto responsabile di Google che era imputato per diffamazione, accusa già caduta in primo grado. E hanno accolto, in sostanza, la linea difensiva degli avvocati Giulia Bongiorno, Giuseppe Vaciago e Carlo Blengino secondo cui Google non aveva, in base all’ ordinamento, alcun obbligo ne’ di controllo preventivo sui contenuti caricati in Rete ne’ informativo in relazione al trattamento dei dati personali.
Nella parte relativa all’assoluzione dall’accusa di violazione della privacy, invece, i magistrati chiariscono che “va esclusa” per il “prestatore di servizi” su internet, come Google, la possibilità “di procedere a una efficace verifica preventiva di tutto il materiale immesso dagli utenti’. E questo sia per “la complessità tecnica di un controllo automatico”, sia perché si tratterebbe di una “scelta da valutare con particolare attenzione in quanto non scevra di rischi” per i suoi riflessi sulla “libera manifestazione del pensiero”. Nelle motivazioni di primo grado, invece, il giudice, tra le altre cose, aveva scritto che la Rete non può essere una “sconfinata prateria” dove ‘tutto è permesso”.