“Non possiamo seguire pedissequamente i trend finanziari, ma dobbiamo tenere la rotta ben dritta verso tre obiettivi strategici, anche se richiedono tempo per essere realizzati. Questi obiettivi sono: la riduzione del debito, l’impegno a ridurre i costi, il mantenimento dei flussi degli investimenti che ci consentiranno di rispondere alla crescente domanda di connettività e di servizi digitali”: sono parole che il presidente esecutivo di Telecom Italia Franco Bernabè ha voluto spendere ieri in un convegno dell’Asati, l’associazione dei piccoli azionisti di TI (moltissimi di loro dipendenti o ex dipendenti di Ti).
“La nostra visione – ha aggiunto Bernabè – non cambierà”. Parole che si possono interpretare come la volontà di tenere la barra dritta di fronte ai mari agitatati (finanziari e non solo) che scuotono la nave di Telecom Italia anche per rassicurare dipendenti del gruppo ed azionisti che di fronte a Telecom Italia ci sono obiettivi e strategie di crescita che il metro della Borsa e della finanza non è oggi capace di misurare in tutto il suo valore.
Ma forse, a leggerle bene, potrebbero anche essere dichiarazioni di impegno di lungo periodo, una smentita indiretta alle voci che vorrebbero il presidente esecutivo di Telecom Italia in partenza verso altri vascelli, magari ancor più tormentati di quello di Telecom.
Una sconfessione dei rumors di queste settimane (ultimo stamattina un articolo sul Corriere della Sera di cui parliamo in altro articolo del nostro sito) non a caso venuta di fronte ai soci dell’Asati, molti dei quali hanno ricordato l’opposizione di Bernabè quando, nella sua prima volta di amministratore delegato di Telecom Italia, si oppose con tutte le forze all’Opa di Colaninno che, insieme a quella successiva di Tronchetti Provera, rappresentano il devastante peccato originale dei mali della Telecom Italia di oggi, o almeno del suo debito e del suo stato patrimoniale.
“La cosa peggiore in questo momento – ha significativamente aggiunto Bernabè – sarebbe lasciare la rotta ed abbandonare la nave. Il nostro impegno è a resistere, a non gettare la spugna. Cambiare strada non avrebbe senso e non lo sarebbe nell’interesse della nostra società e nemmeno dell’Italia che ha bisogno di grandi aziende”.
Non abbiamo né titolo né vogliamo dare suggerimenti agli azionisti di Telecom Italia e a chi ne determina la linea industriale e finanziaria. Ci pare tuttavia quantomeno azzardato, proprio in un momento molto difficile per tutti (basta guardare al mercato europeo delle telco), mettere in discussione un management che ha saputo portare a casa risultati non disprezzabili in termini di contenimento del debito, di riduzione dei costi, di progetto di crescita nelle nuove reti e nei nuovi servizi (in particolare quelli cloud) su cui Telecom potrà costruire il proprio futuro.
Certo, ciò significa anche sacrifici per gli azionisti che invece di intascare dividendi intascano investimenti nelle nuove reti e un titolo che non riesce a ripartire. Ma quello della cicala non è il destino migliore, soprattutto in un quadro di grandi cambiamenti tecnologici e di mercato come questi. A volte è la formica ad avere ragione.
Uno smembramento di Telecom (che è cosa diversa da un eventuale scorporo della rete) piacerebbe senza dubbio ai mercati e agli azionisti mordi e fuggi o a chi è entrato in Telco facendo male i suoi conti. Farebbe bene al titolo nel brevissimo periodo, ma cosa poi resterebbe in mano al Paese? Un nuovo drammatico colpo ad una delle poche grandi aziende che ci sono rimaste in Italia, al di là di chi ne sia l’azionista. Ci siamo fatti già abbastanza male, ci sembra, con politiche industriali scriteriate che hanno lasciato solo macerie dietro di sè. Partiti o movimenti, in questo inizio di legislatura, non dovrebbero dimenticarlo. Anche se è una legislatura che nasce per durare poco.