L'ALLARME

La crisi delle Tlc in Italia: a rischio almeno 20.000 posti di lavoro

E sono solo quelli diretti del “perimetro” telco. Impatti importanti a catena per le aziende dell’impiantistica, manutenzione, installazione e nei contact center. I sindacati: “Il settore è arrivato ad un bivio drammatico, il modello industriale è sbagliato”. Pronta a scattare la mobilitazione

Pubblicato il 11 Apr 2023

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Il settore delle telecomunicazioni è arrivato ad un “bivio drammatico”. Lo scrivono in una nota congiunta le segreterie nazionali Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil, puntualizzando che “sono a rischio reale oltre 20.000 posti di lavoro diretti nel solo perimetro delle telco, senza calcolare gli effetti che saranno generati nell’intero sistema degli appalti del settore, sia per quel che concerne l’impiantistica, la manutenzione, l’installazione delle reti sia fisse che mobili, che per il settore dell’assistenza clienti nella sua interezza”. I sindacati si preparano dunque alla mobilitazione contro quello che, nella nota, definiscono “un modello industriale sbagliato” e contro la “miopia delle aziende e l’assenza di lungimiranza dei governi nei confronti di questo settore fortemente strategico”.

Un mercato che “brucia” un miliardo di ricavi l’anno

“Il settore delle telecomunicazioni, in tutti i paesi tecnologicamente avanzati, è uno dei pochi comparti ancora in grado di coniugare occupazione di qualità nonostante la fase di grande difficoltà che tutto il continente attraversa – scrivono i sindacati -. In termini di risultati economici, volendo comparare le performance 2022 delle telco europee rispetto al mercato italiano, si evidenzia un quadro con qualche sofferenza nell’intero Continente, ma di certo non paragonabile a quanto avviene nel Paese. Un mercato che brucia oltre un miliardo di ricavi l’anno, con un lento e inesorabile “stillicidio” occupazionale, che nell’ultimo decennio ha praticamente dimezzato la forza lavoro dei maggiori gestori italiani. Sul versante occupazionale, infatti, il settore è stato caratterizzato negli ultimi 15 anni dal continuo ricorso ad ammortizzatori sociali, esodi incentivati, tagli nella contrattazione aziendale, perdite di professionalità importanti, e blocco pressoché totale del ricambio generazionale”.

No dei sindacati alla divisione infrastrutture-servizi

In questo scenario, la “ricetta messa in campo dalle principali telco”, ovvero “dividere l’industria (le infrastrutture di rete) dai servizi” non piace ai sindacati. “Una impostazione miope – scrivono – che impoverirà ancor di più il settore, trasformando aziende leader del comparto tlc a meri rivenditori di servizi, i cui azionisti di riferimento non sono neanche italiani”. “In un contesto di mercato ipercompetitivo – aggiungono -, le aziende, per poter sostenere questo modello, dovranno continuare a rivedere al ribasso la struttura dei costi, andando a colpire inesorabilmente il costo del lavoro, generando una conseguente continua riduzione dei perimetri occupazionali”. “Estremamente preoccupante” viene definita la condizione di Tim, in un modello così definito, “tenuto conto dell’impressionante mole debitoria che grava sull’azienda per circa 23 miliardi di euro”: “Da anni il sindacato chiede di aprire un confronto con le istituzioni relativamente alla situazione dell’ex monopolista – recita la nota -, e da anni sistematicamente l’unica risposta è l’imbarazzante silenzio dei vari esecutivi, che preferiscono sfuggire al problema anziché provare a trovare quelle soluzioni che garantiscano al Paese la possibilità di avere un soggetto nazionale di riferimento, così come avviene in tutti i principali paesi europei. Ma la situazione non è migliore nel comparto dei customer in outsourcing, già storicamente in affanno, con le aziende più rappresentative impegnate a ricercare soluzioni ai mali atavici del settore, minacciando ad ogni rinnovo, l’uscita dal contratto delle telecomunicazioni”.

“Ridurre salari e diritti delle lavoratrici e dei lavoratori – proseguono – non metterebbe in sicurezza il settore dalle politiche “ribassiste” della committenza. In assenza di una legge sulla rappresentanza, o di un intervento governativo che stabilisca il contratto di riferimento, ci sarà sempre chi troverà un contratto dal costo inferiore per poter offrire ulteriori ribassi, o ancora, alternative peggiori quali il ricorso all’offshoring”. E “nonostante le importanti conquiste ottenute dal sindacato confederale, ancora oggi troppi committenti, a cominciare dalla pubblica amministrazione, ricorrono a fornitori che applicano contratti “pirata” che generano esclusivamente abbattimenti di salario e riduzioni diritti per le lavoratrici ed i lavoratori”.

Dalle istituzioni “nessun intervento strutturale”

E le istituzioni? Per i sindacati, “non stanno svolgendo alcun ruolo regolatorio, nessun intervento strutturale che possa dare stabilità al settore rilanciando un asset strategico per il sistema paese e tutelando oltre 120mila addetti che operano nel variegato mondo delle telecomunicazioni. Da mesi va avanti un “surreale” tavolo tecnico presso il Ministero delle imprese e del made in Italy, nel quale è completamente assente la voce dei rappresentanti dei lavoratori, e dove si fatica ad immaginare di cosa si dibatta. Fra un’audizione e l’altra Tim, anche grazie all’offerta formalizzata da Cassa Depositi e Prestiti, si avvia velocemente a spezzare in maniera definitiva l’unicità dell’azienda; Vodafone chiede una riduzione dei costi pari al taglio di circa 1000 posti di lavoro, il 20 per cento dell’attuale forza lavoro; Windtre ha ufficializzato la vendita dell’infrastruttura di rete imboccando una strada sbagliata e piena di incognite occupazionali, British Telecom ed Ericsson hanno formalizzato, anche loro, eccedenze. Ogni anno fallisce un importante soggetto fra i call center in outsourcing, mentre quelli che rimangono non riescono a garantire alcuna stabilità occupazionale ed economica, ricorrendo quotidianamente ad ammortizzatori sociali. È evidente quanto il modello industriale del settore sia sbagliato”.

“Tim: necessario che mantenga il ruolo di incumbent”

“La parcellizzazione dell’ex monopolista – puntualizza la nota – non migliorerà la situazione”: “Da oltre un decennio il sindacato confederale, tenuto conto dei modelli applicati in altri paesi d’Europa che hanno permesso sviluppo ed investimenti, ha suggerito e sollecitato il mantenimento del ruolo di incumbent per l’ex monopolista del settore. Purtroppo, tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, non hanno mai ritenuto di dover difendere questa posizione con le autorità europee, tollerando almeno due pesi e due misure, condannando alla depauperazione infrastrutturale e tecnologica l’ex monopolista. Una politica che ha condannato il Paese agli ultimi posti in Europa in termini di qualità della connessione offerta alla propria cittadinanza”.

Il rischio: la creazione di micro-gestori virtuali

“Il futuro che si prospetta, in assenza di una netta inversione di tendenza, sarà la creazione di micro-gestori virtuali, con scarsissima occupazione e infrastrutturazione tecnologica azzerata – proseguono i sindacati -. È tempo che ciascuno assuma le proprie responsabilità. Il settore delle tlc deve tornare ad essere il motore attivo della transizione digitale del Paese, deve rinnovarsi ed attrarre nuovi talenti. Al contempo, bisogna puntare alla ri-professionalizzazione di migliaia di lavoratrici e lavoratori verso i nuovi mestieri di cui un settore in costante evoluzione necessita. Ancor più necessaria risulta questa riconversione nel mondo dei customer, dove, a causa degli effetti dell’avanzamento dei processi di digitalizzazione, migliaia di attività rischiano di esser superate dalla gestione dell’uomo”.

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