C’è stato un tempo in cui la geografia delle telecomunicazioni statunitense era cosparsa di scogli regolamentari e monopoli locali, sotto l’egida di una cornice legislativa che affondava radici (addirittura) nell’epoca del New Deal. Fino a che, correva l’anno 1996, l’amministrazione Clinton non decise di terremotarla con una poderosa scossa di deregulation affidata all’ormai celeberrimo Telecommunications Act. Una corposa normativa che, nell’euforia liberista del tempo, puntava a spalancare il mercato Usa alle provvidenze della concorrenza (pur nel rispetto dei poteri regolamentari dei singoli stati). Racconta l’attuale ambasciatore americano a Bruxelles, quel William Kennard che al timone della Federal Communications Commission supervisionò i primi passi attuativi della “rivoluzione” clintoniana: “Abbiamo lasciato il mercato agire ed è stata la migliore decisione che il governo potesse prendere”. I numeri, almeno in superficie, sembrano dargli ragione.
Diciassette anni dopo, il 90% dei consumatori d’oltreoceano può scegliere tra almeno 6 operatori (tra cavo, mobile e telefonia fissa) che offrono servizi su scala locale. E a livello federale operano non meno di 11 grandi telco. Il rovescio della medaglia è però che l’inasprirsi della pressione competitiva, accoppiato all’andamento altalenante dell’economia, ha finito con il produrre “un’implacabile spinta al consolidamento all’interno e tra le differenti piattaforme tecnologiche”, per dirla con il New York Times. In altre parole, una volta allentate le maglie regolamentari, l’epopea delle telecomunicazioni americane negli ultimi dieci anni è stata (ri)scritta a suon di fusioni e acquisizioni. “E ce ne saranno sicuramente altre”, vaticina il ceo di T-Mobile John Legere. Nulla di scabroso, rispondono in coro i simpatizzanti di questo modello. E spiegano che il mercato sembra piuttosto seguire una evoluzione logica, considerati sia il livello di investimenti necessari per costruire reti di nuova generazione sia la scarsità di spettro disponibile.
Ecco in ogni caso qual è la sostanza del tanto citato “consolidamento all’americana”, che scorto dall’anziana Europa eccita gli animi di alcuni e gli incubi di altri: in pratica 4 grandi player dominano oltre l’80% del mercato nazionale. Si tratta di Verizon, AT&T, T-Mobile e Sprint. Tutti, e rigorosamente, a capitale privato. Ma non “impermeabili” a consistenti interessi stranieri. Anzi. Nel caso di T-Mobile Usa, il quarto operatore per dimensioni, la proprietà è 100% made in Germany, leggi Deutsche Telekom. Vodafone, per par suo, detiene il 45% di Verizon Wireless, mentre il colosso dei media giapponese Softbank attende il via libera dell’Antitrust per accaparrarsi una quota del 70% in Sprint.
Ai piedi di questi giganti, si dipana nondimeno una miriade di piccoli operatori regionali (sono oltre 150 quelli attivi nella telefonia mobile), che pur non avendo i numeri e le caratteristiche per accedere al mercato nazionale, se non altro sfidano i mai sopiti sospetti di oligopolio. Alcuni di essi, tanto per intenderci, hanno un bacino di milioni di utenti, tanti quanti un operatore alternativo europeo. Al loro fianco, inoltre, prosegue la marcia trionfale del cavo, anch’esso lanciato verso il consolidamento e più che mai determinato a gareggiare con le mega-telco.
Certo, anche negli Stati Uniti c’è chi plaude e chi aborre a questo sistema. Ma, valutazioni di merito a parte, le statistiche sembrano promuoverlo. “Il consolidamento – spiega Karim Lesina, Vice Presidente per AT&T degli Affari Istituzionali per l’Europa, l’America Latina i Caraibi e le relazioni transatlantiche – permette alle compagnie di accrescere il proprio raggio d’azione geografico, creando economie di scala, aumentando l’efficienza e spianando la strada a più investimenti”. Nel corso degli ultimi tre lustri sono stati spesi oltre 300 miliardi di dollari in investimenti infrastrutturali. Con i servizi a banda larga mobile, in particolare, a farla da padrone: gli abbonamenti in questo particolare segmento hanno sforato il muro dei 300 milioni, con un tasso di penetrazione tra la popolazione attorno al 120% (il più alto al mondo) e 126 miliardi di dollari di entrate negli ultimi due anni.
Morale della favola: altrove il mercato delle telecomunicazioni soffre, negli Stati Uniti invece continua a crescere a ritmi del 5% all’anno con un contributo del 2.4% al Pil nazionale. Non tutto è oro quel che luccica, però. Secondo un recente studio della New American Foundation “i consumatori americani pagano spesso tariffe più alte per servizi più lenti rispetto ad altre parti del mondo. L’equazione sbandierata dai più critici è che più consolidamento e meno concorrenza corrispondono a minori benefici per gli utenti. Come a dire: ogni storia di successo ha il suo rovescio della medaglia.