Come ha notato il filosofo Paul Virilio, “la tecnologia crea innovazione ma , contemporaneamente, anche rischi e catastrofi: Inventando la barca, l’uomo ha inventato il naufragio”. Oggi gli aspetti critici del digitale stanno prendendo spazio, non solo sui giornali, ma anche nella testa di manager e imprenditori.
Il tema è delicato e complesso e va pertanto inquadrato e compreso in maniera non preconcetta, ma all’interno delle più generali dinamiche dell’evoluzione tecnologica e quindi nella sua articolazione e complessità, innanzitutto per restituirne la ricchezza, l’applicabilità diffusa e anche la sua fascinosità, persino nelle dimensioni più criticabili. Non basta minimizzare o esorcizzare il lato oscuro per contrastare il crescente sospetto nei confronti delle Rete e delle sue potenti tecnologie e, soprattutto, il timore che le sue promesse non possano essere mantenute. Il tema non è recente ma, nell’ultimo periodo, la sua rilevanza è cresciuta con vigore. Le inesattezze e falsificazioni di Wikipedia, il potere sotterraneo e avvolgente di Google, la fragilità psicologica indotta dagli universi digitali, il finto attivismo politico digitale svelato dall’espressione click-tivism, il diluvio incontenibile della posta elettronica, il pauroso conto energetico dei data center, i comportamenti “scorretti” dei nuovi capitani dell’impresa digitale sono solo alcuni dei problemi che stanno emergendo, con sempre maggiore intensità e frequenza.
Non parliamo di rigurgiti tecnofobici, ma di fatti concreti che incominciano a minacciare le solidità aziendali. Prendiamo ad esempio l’energia. il New York Times ha recentemente denunciato che i datacenter hanno consumato nell’ultimo anno 30 miliardi di watt di elettricità a livello mondiale, quanto l’energia prodotta da 30 centrali nucleari. DatacenterDynamics stima inoltre che l’anno prossimo questo consumo crescerà del 20%. Questi numeri sono ancora più inquietanti se misuriamo la ridondanza e “sporcizia digitale” presente sulla Rete: secondo Idc, il 75% del mondo digitale è una copia mentre Icf International stima che – già nel 2009 – la “posta-pattumiera” rappresentava il 97% di tutte le mail in circolazione (62mila miliardi di messaggi).
Si deve però evitare il cosiddetto Net Criticism, che si accanisce su alcuni fenomeni in maniera ossessiva, senza approfondire le cause e studiarne delle soluzioni concrete, e che tende a trasformare i suoi leader in “neo-predicatori” apocalittici. Una disillusione del digitale causata da uno svelamento non guidato e contestualizzato di molti suo errati utilizzi e false promesse potrebbe essere drammatica, soprattutto di questi tempi. Rischierebbe infatti di interrompere quel flusso di innovazione e sperimentazione che è sempre accompagnato da sogni, spericolatezze, errori e rischi. E ci sono già le prime avvisaglie: ad esempio l’articolo su The Economist del 12 gennaio titola evocativamente “Innovation Pessimism”. Ciò che serve è molto di più di una banale alfabetizzazione digitale, di un addestramento agli strumenti digitali o ai suo linguaggi. Troppo spesso i fornitori Ict hanno puntato a una sorta di colonialismo digitale – gli utenti sarebbero “indigeni da alfabetizzare” -. La sfida è fertilizzare con il digitale l’ambiente in cui viviamo per rigenerare anche i processi più tradizionali.
Bisogna fare in modo che la tecnologia (digitale) ritorni ad essere un enzima che generi energia e inneschi trasformazioni positive e non un semplice steroide anabolizzante, che si limita a pompare l’azienda creando l’illusione di una “crescita apparente”. Dobbiamo alzare la temperatura digitale delle aziende e non decorarle con oggetti digitali.