L'INTERVISTA

Warren: “La regola è big data solo per big”

La fondatrice e Ad di MW Research: “Solo le grandi e le medio-grandi aziende possono realmente beneficiare dello sfruttamento di grandi moli di dati. La trasformazione va pianificata in un’ottica di integrazione”

Pubblicato il 01 Lug 2013

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Prima integrazione dei sistemi aziendali oppure prima i Big data? Sta diventando la versione digitale e post-moderna dell’uovo e della gallina: mettere mano a tutta l’infrastruttura aziendale oppure abbracciare i nuovi sistemi di raccolta dei dati che permettono di effettuare analisi su quantitativi enormi di informazioni?
“In realtà – spiega Michelle Warren, fondatrice e Ad di MW Research, società canadese di consulenza e analisi – il problema così è mal posto. In questo modo infatti i distinguo da fare caso per caso sarebbero troppi e il rischio di non trovare una soluzione eccessivo. La strada è un’altra per le aziende”.
Qual è l’approccio corretto?
Iniziamo con dire che i Big data si scontrano subito con problemi sulle informazioni presenti in azienda: spesso non sono strutturate, spesso sono archiviati in vecchi sistemi legacy costruiti con la logica dei silos, in maniera tale che quel che è contenuto nel silos A non possa essere collegato a quel che c’è nel silos B. E non è neanche questa la sfida maggiore.
Qual è?
Il backup, ad esempio. Si fa troppo e male: sistemi ridondanti, mal gestiti, senza discriminare quali informazioni conservare e quali no. Con troppe modalità di accesso ai dati: tutto si moltiplica e tuttavia non si riesce a trovare il set di informazioni corrette in tempi rapidi
Come si fa a risolvere questo insieme di problemi?
I Big data non sono per tutti. Vanno bene per le grandi e medio-grandi aziende, quelle dai mille dipendenti in su, per intendersi, che negli Usa sono considerate medio-piccole perché in quel paese, a differenza dell’Italia o del Canada, il tessuto economico è costruito su molte grandi e grandissime imprese. Comunque, i big data sono solo per i grandi. E non basta.
Cosa occorre di più?
È necessario pianificare la trasformazione della propria infrastruttura tecnologica in ottica di integrazione prima dei Big data. E per farlo bisogna fare un piano di lungo periodo, da cinque a dieci anni. È un viaggio lungo, bisogna progettare la trasformazione, occorre avere leader e consulenti che sappiano cosa stanno facendo e bisogna far evolvere sia l’hardware che il software. Soprattutto, c’è un altro grande cambiamento che è quello che crea più problemi in azienda.
Vale a dire?
Il cambiamento delle procedure. Con nuovi sistemi e i Big data, bisogna verificare processo dopo processo in quale modo fare le cose. E questo crea tensioni e resistenze, perché si va a cambiare il modo di lavorare della gente chiedendo di abbandonare il modo tradizionale e fino a quel momento corretto di lavorare per uno nuovo e potenzialmente fallibile. Inoltre, i Big data richiedono grande potenza di calcolo e memoria, sono costosi, cambiano i processi, mandano in soffitta alcune delle vecchie professionalità lavorative e ne chiedono di nuove. Un’azienda abbraccia con passione i Big data solo se si trova nei guai, altrimenti il corpo dell’organizzazione cerca naturalmente di resistere.
Un cambiamento doloroso per le aziende. In cambio di cosa lo si fa?
Con i Big data si capisce meglio il mercato, si vedono con maggiore definizione le strategie dei propri avversari, i movimenti della clientela. È come mettersi gli occhiali: si vedono cose che sono sempre state là a che prima erano sfuocate o quasi invisibili. Si possono migliorare servizi e prodotti, si possono servire dinamiche che non sono più dettate dalle aziende ma dai singoli che decidono ogni giorno cosa comprare e quando, dove e a che prezzo.
Uno dei grandi trend è il Cloud che permette risparmi economici per le aziende. Qual è il paragone con i Big data?
Il Cloud sposta le spese in dotazione tecnologica dell’azienda dal Capex all’Opex, dalle spese di capitale alle spese operative. Le decisioni IT necessarie a lanciare un prodotto e i servizi collegati possono essere prese dal responsabile del marketing senza bisogno di coinvolgere il direttore dell’IT. I Big data invece sono all’opposto: richiedono un nuovo matrimonio tra infrastruttura e dati, che cambia gli assetti e pesa fortemente sulle strategie anche finanziarie dell’azienda.
Ma fermo restando i grandi sforzi anche economici, i Big data poi fanno la differenza?
Ancora non ho sentito molte grandi storie di successo. È troppo presto, forse. Comunque, i casi che ci sono rientrano più nella categoria delle “dimostrazioni”, sono aziende che sviluppano soluzioni dimostrative con i loro partner tecnologici. Ancora è presto, ma si sta già capendo che i Big data non funzionano sempre in tutti i mercati.
Quali i settori migliori?
Finanza, settore retail, assicurazioni. Forse, ma non è detto. E magari anche altri. Non è prevedibile adesso. L’offerta di sistemi e soluzioni per i Big data da parte del mercato della tecnologia è un po’ come l’iPad: tutti lo desiderano ma ancora non si sa di preciso perché. Google con i Big data ha creato un sistema di traduzione automatica che funziona verificando tutte le traduzioni simili pre-esistenti. Ma questo approccio funzionerebbe anche per l’analisi dei titoli in Borsa? O per l’erogazione di energia da una centrale nucleare? È presto per dirlo e bisogna diffidare di chi sostiene di avere risposte certe in questo senso.

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