Il closing dell’operazione di Tim com Kkr annunciato per il 1 luglio dall’Ad Pietro Labriola ha di fatto aperto la nuova era di Tim: ai dipendenti l’amministratore delegato ha detto che “con una struttura finanziaria più solida”, l’azienda “potrà essere protagonista nei nuovi scenari tecnologici e di business”. Intervenendo a Telco per l’Italia, Labriola ha chiarito: “Non deve sorprendere quello che ho scritto a tutti i colleghi: sono tre anni che diciamo che, se vogliamo dare un futuro alla nostra azienda e al nostro gruppo, dobbiamo toglierci il fardello del debito. Avevamo quasi 21 miliardi di euro di debiti, pagavamo 1,2 miliardi di euro di interessi l’anno con un tasso al 3,7%. Con un mercato finanziario che stava peggiorando saremmo passati a tassi di interesse del 7%: non potevamo dare una prospettiva industriale e strategica alla nostra azienda, cosa che abbiamo invece fatto dividendoci in due business completamente differenti”.
L’investimento in fibra è massiccio ed equivale a quello fatto a suo tempo per il rame, ha ricordato Labriola, quando l’azienda, però, era un concessionario pubblico e il ritorno economico era garantito.
“Ora siamo di fronte a un nuovo ciclo di investimenti, ma dopo la liberalizzazione del mercato. La fibra ci richiede 1,3-1,4 miliardi di euro di capex all’anno per 7-8 anni di investimento: cifre difficilmente sostenibili per un’azienda quotata in borsa e con un business retail. Come giustificare un 25% di capex on revenue? Non è spiegabile”, ha detto Labriola.
ServiceCo, lo scorporo della rete serve per investire
Di conseguenza Tim si è messa nella scia di una chiara tendenza del mercato che porta a separare il business delle infrastrutture da quello dei servizi, soprattutto se il primo richiede grandi investimenti e non ha un ritorno certo.
“Scorporare l’attività delle reti ci permette di mettere da parte il business dell’infrastruttura, che sarà non quotato e continuerà a investire, inizialmente bruciando cassa; poi, completato il ciclo degli investimenti e andando, presumibilmente, verso una rete unica, diventerà un asset redditizio nel lungo termine e attrattivo per alcuni operatori”.
Dall’altra parte c’è il business dei servizi: “Ricordo a tutti che Deutsche Telekom, considerata un riferimento a livello europeo, genera il 75% dell’ebitda negli Usa e solo il 25% in Germania, che è un Paese per molti aspetti simile al nostro, con 3 operatori e una forte componente Fttc che rende più lento il roll-out dell’Ftth”, ha evidenziato Labriola. “ServiceCo ha una struttura simile, con il grosso del business che è generato all’estero, in Brasile, dove la nostra azienda è redditizia, perché agisce in un mercato con soli 3 operatori per un Paese che ha 310 milioni di abitanti ed è circa 30 volte più grande dell’Italia. E dove abbiamo pagato le licenze 5G una cifra equivalente a 300-400 milioni di euro, non 2,4 miliardi come in Italia”, ha proseguito Labriola.
Tra l’altro, ha evidenziato l’Ad di Tim, il Brasile è un mercato consolidato dove il 5G non è “quello del marketing, ma quello avanzato della release 16 con bassissima latenza”, che in Italia ancora non c’è, impedendo di realizzare le reti private con funzionalità complete. E quindi, ha continuato Labriola, “Tim, come gli altri operatori, deve trovare il modo di reinvestire sul 5G e avere pure un ritorno sull’investimento”.
La nuova Tim è anche Enterprise
Ora che cosa rimane in Italia della nuova Tim? “Tutta l’attività enterprise e tutta quella consumer, ma ricordando che il 70% dell’ebitda e della cassa della nuova Tim vengono dal Brasile e da Tim Enterprise, che sono due segmenti ed aree di mercato ad alta redditività, con crescita prevista del 4-5% annuo”, ha affermato Labriola. “Questa prospettiva positiva si lega al fatto che tutto il software è venduto dalle aziende tecnologiche nel cloud e le telco cresceranno sulla scia di questo business, così come sull’onda dell’Iot, delle smart city e della cybersecurity. Nel segmento enterprise smart city Tim fa 15 milioni di ricavi all’anno: Tim Enterprise è un segmento ad alta potenzialità di crescita nel quale vogliamo trovare un ruolo anche, eventualmente, con acquisizioni”.
Poi c’è il 30% dell’attività rappresentato dalla parte consumer, nella quale, ha affermato Labriola, non c’è sostenibilità. Ma il problema non è company-specific, di Tim, perché “nessun operatore fa soldi da questa attività: è un problema di industria nazionale e lo è anche in Europa”.
Il fair share: gli Ott pesano sulle reti, l’Ue corra
Una riforma del settore delle non è, dunque, più rinviabile e il paper presentato da Enrico Letta va in direzione di un mercato europeo unico delle Tlc e del consolidamento. Resta sul tavolo la questione del fair share e quindi del contributo a carico delle big tech. Da questo punto di vista, Labriola ha detto di voler vedere “il bicchiere mezzo pieno: oggi finalmente si parla di fair share e di consolidamento e questo vuol dire che qualcosa si muove, tre anni fa era impensabile“, ha affermato l’Ad di Tim. “Certo, il percorso è troppo lento, ma tutto il sistema di definizione delle norme in Europa è obsoleto, non adeguato all’evoluzione tecnologica. Un’analisi di mercato che richiede due anni equivale a guidare usando solo lo specchietto retrovisore: si definiscono le regole del futuro senza guardare avanti. Se la soluzione del fair share arriverà tra 5 anni, non so quanti di noi saranno ancora qui”.
Labriola ha evidenziato: “Tim deve investire sulla capacità della rete mobile al ritmo di 200 milioni di euro l’anno a causa degli enormi volumi di dati degli Ott, ma non possiamo continuare a farlo per 5 anni. Come minimo, ho bisogno di sapere quanto traffico gli Ottt intendono aggiungere per pianificare l’aggiornamento della rete. Che tra l’altro, richiede almeno 12 mesi di lavoro, e se una telco non riesce a fare questi aggiornamenti, rischia di bloccare il servizio tlc nei suoi usi essenziali. Perciò: l’apparato normativo europeo ci deve seguire con più velocità. Ma il primo passo è fatto: per troppo tempo abbiamo detto che tutto andava bene quando non era affatto così”.