Possono diventare un motore dell’innovazione nel Paese, sono giovani Pmi digitali sorte nell’86% dei casi dopo il 2000, preparatissime con oltre i 58% di laureati e il 18% di dottorati, con organizzazioni flessibili, “liquide”. La fotografia è scattata dalla prima ricerca realizzata da Assinteldigitale sull’universo del made in Italy “innovativo secondo cui queste realtà producono il 3,9% del Pil pari a 54 miliardi all’anno e crescono nonostante la crisi: come numero d’imprese (+9,3% nel triennio nero 2009/12), come addetti totali (+13,7%) e soprattutto come previsioni di fatturato 2013 (in crescita per il 68%).
Entrando nel dettaglio dello studio, le imprese digitali sono piccole e medie imprese, con mediamente 17 collaboratori e un fatturato di 1.000.000 di euro. Ma il 44%, essendo giovanissime, si colloca sotto i 100.000 euro l’anno. Il 75% di esso è nel b2b e l’87% è generato in Italia. Nel 2013 le previsioni sono controcorrente rispetto al buio del Paese: in crescita nel 68% dei casi e stabili per il 28%. Il 63% è digital native, cioè è nata recentemente sui nuovi paradigmi digitali, ed è mossa in primo luogo da passione e incontri professionali precedenti; il restante 37% deriva da una evoluzione delle “vecchie” imprese IT. Per due terzi sono Srl, ma il modello organizzativo è per lo più “liquido”: il 60% delle imprese è infatti strutturato sul singolo processo/commessa ed è per lo più informale. Protagonista assoluto dell’organizzazione e della comunicazione interna è il web, vera piattaforma di collaborazione per l’85% di esse. Il 33% lo utilizza anche per vendere online.
“Sono la punta di diamante della nostra imprenditoria e tengono agganciata l’Italia alla modernità – spiega Giorgio Rapari, presidente Assintel – I dati della ricerca danno luce ad uno scenario mai indagato e tuttavia decisivo per la nostra economia: in Italia esiste un universo fluido di nuove imprese che, nonostante la crisi strutturale, funzionano. Portatrici di innovazione, sono le punte di diamante di una nuova imprenditoria che dobbiamo riconoscere e valorizzare, perché contribuisce in maniera decisiva all’innalzamento del nostro Pil e della nostra competitività”.
“Cercano un centro di gravità permanente – sottolinea Maria Grazia Mattei, vice presidente di Assintel e coordinatrice di Assinteldigitale, la verticalizzazione che rappresenta il nuovo mondo dell’impresa digitale – Hanno al centro della loro attività il web e la creatività, parlano linguaggi nuovi e si muovono su logiche fluide e poco strutturate. Per questo non si riconoscono nei tradizionali modelli di rappresentanza e soffrono una sindrome da disadattamento al contesto burocratico. Ed è proprio ricalcando queste esigenze che Assinteldigitale sta costruendo un luogo identitario adatto a loro”.
Per quanto riguarda l’’identikit del lavoratore digitale, è giovane (67% under 35, che sale al 72% nelle imprese native digitali), maschio (64%), laureato (il 65%) o addirittura con master/dottorato/Phd (12%), con esperienza lavorativa all’estero (29% nelle imprese digital native).
Ma soprattutto con un contratto atipico per oltre un terzo di essi (CoCoPro e Partite Iva). Il cosiddetto posto fisso, a tempo indeterminato, resta predominante solo per le imprese tradizionali IT based, più grandi e organizzate, mentre è un non-luogo per quelle native digitali (solo il 26%): i costi dello Stato sul lavoro per le loro organizzazioni piccole e liquide sono troppo alti. In esse molto spesso il titolare è factotum e i carichi di lavoro diventano critici.
L’occupazione è in costante crescita: a fine 2012 sono oltre 620.000 gli addetti digitali, in crescita di quasi 75.000 unità (+13,7%) rispetto all’inizio della crisi nel 2009. Ma il dato più interessante è che ad essi si aggiunge oltre un altro terzo di professionisti atipici, cioè oltre 250.000 persone strutturali nei processi produttivi della nuova impresa digitale, che abbiamo stimato attraverso l’indagine di campo.
Infine le maggiori criticità dichiarate dagli imprenditori. Ai primi posti il costo dello Stato sul lavoro, l’accesso al credito bancario ma soprattutto i vecchi modelli “fordisti” di offerta finanziaria, e l’ancora scarsa disponibilità in Italia di investimenti privati.
Ci sono poi i problemi di tipo organizzativo: troppo carico di lavoro su poche persone, mancanza sul mercato di competenze tecniche e manageriali adeguate , e parallelamente una scarsa offerta formativa adeguata alle loro esigenze.