“La criticità relativa ai progetti di open data? L’organizzazione della filiera di produzione ed elaborazione del dato”. Matteo Lepore, presidente della commissione Innovazione e tecnologia dell’Anci e assessore al Comune di Bologna, non ha dubbi: gli ostacoli all’apertura dei dati non sono solo di natura tecnologica.
Assessore Lepore, molti Comuni italiani hanno sviluppato iniziative specifiche – in molti casi all’avanguardia – ma manca la messa a sistema. Perché?
I Comuni in questi ultimi anni hanno messo in campo pratiche di rilascio degli open data “volontarie”, pratiche che poi hanno trovato una cornice legislativa nazionale con il varo del Crescita 2.0. Contestualmente l’Anci ha lavorato a linee guida condivise per provare ad implementare in maniera organica e diffusa le iniziative degli enti locali. Ma questo ovviamente non è bastato. Ci sono due aspetti – strettamente interconnessi – su cui bisogna lavorare molto: l’accountability delle informazioni e la riorganizzazione della filiera di produzione.
Partiamo dal primo aspetto.
Per “fare” open data e avviare pratiche di open government non basta catturare le informazioni e pubblicarle online. È necessario che quei dati siano intellegibili e fruibili da parte di cittadini e imprese. I Comuni catturano dati grezzi che devono però essere resi fruibili: è questo che si intende quando si parla di accountability. Ma questa pratica non è attuabile se non si ripensa la struttura organizzativa e funzionale delle pubbliche amministrazioni.
E qui veniamo al secondo aspetto…
Esattamente. I dati delle amministrazioni vengono rilevati da sensori, cartografie oppure direttamente negli uffici. Va da sé, o almeno dovrebbe andare da sé, che l’organizzazione del lavoro deve essere più flessibile e più integrata. Due caratteristiche che difficilmente si trovano nella PA italiana, sia per motivi burocratici sia tecnologici. Le infrastrutture IT si basano, nella maggior parte dei casi, su licenze proprietarie poco flessibili e interoperabili. Al contrario, una maggiore diffusione dell’open source faciliterebbe l’integrazione “lavorativa”. In questo senso come Anci, speriamo che le linee guida a cui sta lavorando l’Agenzia per l’Italia digitale prendano in considerazione questo aspetto e che il governo dia la giusta spinta politica perché questo avvenga. Troppo spesso, infatti, gli open data vengono analizzati solo come fenomeno tecnologico. Si tratta invece di un salto “epistemologico” che ribalta il rapporto tra PA, cittadini e imprese, un salto per cui serve un grande impegno politico.
Cosa fare per riorganizzare la filiera del dato?
Trovare degli spazi di collaborazione e condivisione tra le amministrazioni e gli utenti, cittadini o imprese che siano. Ma questa – ripeto – è una scelta di natura politica. È arrivato il momento che la politica dica se vuole fare davvero la rivoluzione digitale in nome della trasparenza e dell’efficienza.
Gli open data soffrono anche per l’eccessiva frammentazione dei data center. Ragosa punta a consolidare le infrastrutture, magari a livello regionale. I Comuni come considerano questa iniziativa?
Consideriamo positivamente ogni iniziativa che vada nella direzione di un efficientamento dei data center a garanzia di una maggiore interoperabilità e compatibilità dei dati. Ma l’Agenzia deve individuare delle buone pratiche locali da replicare a livello nazionale, tenendo conto delle specificità territoriali e integrando innovazione tecnologica e organizzativa-gestionale.