PUNTO DI VISTA

Start up, la chiave è la domanda

Serve una politica industriale in grado di dirottare gli investimenti in settori dove è alta la richiesta di servizi

Pubblicato il 21 Lug 2013

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ll fenomeno delle startup a livello internazionale è trainato da dieci anni nei quali la disponibilità di liquidità sui mercati è altissima. Accanto ad una enorme crisi economica e di caduta del Pil si assiste anche ad una enorme bolla finanziaria che vede nelle società tecnologiche uno degli ambiti preferiti di investimento. Le startup di successo in realtà hanno guadagnato molto di più dalla quotazione in borsa o dalla propria vendita a qualche altra azienda che dai clienti. Non passa giorno che “big” player non acquisiscano una azienda: le startup sono considerate una opzione di investimento al pari di qualsiasi titolo ad alta crescita e alto rischio. La logica di investimento è più finanziaria che industriale e ci fa riflettere quale messaggio possiamo dare a chi vuole aprire una impresa.

Già molti danni ha provocato al nostro sistema imprenditoriale il “fai da te”. Il nostro sistema soffre già abbastanza della scarsa preparazione manageriale e l’essere un bravo ingegnere o creativo non è correlato con l’essere un buon manager.
Questo dobbiamo dirlo prima a quei giovani che non trovano lavoro e che, pieni di preparazione, vogliono aprire una startup e; dobbiamo dirlo a quei politici che finanziano decine di iniziative, in molti casi ,senza una pianificazione industriale di sistema. Qui si rischia che gli unici posti di lavoro che si creano siano quelli di chi assiste le startup e degli “palazzinari” che costruiscono gli “incubatori”.
Inoltre l’incrocio tra la voglia di lavorare dei giovani e la pressione sulle famiglie di dare un’a opportunità ai propri figli, rischiano di spingere le famiglie stesse ad investire in una impresa che non ha molte probabilità di riuscire. Con il risultato di far perdere tempo prezioso ai giovani e impoverire le già provate famiglie. Il sistema bancario italiano, così difficile da convincere quando si tratta di finanziare imprese innovative, dovrebbe evitare di alzare aspettative e illusioni e mirare più sul concreto, dotandosi di persone in grado di guidare le scelte finanziando molto più facilmente le imprese che ne hanno bisogno.

Il rischio è che le startup siano appannaggio di chi può permettersi di lavorare con un reddito esiguo – figli di manager o professionisti usciti dal mercato del lavoro – riproducendo l’immobilità sociale denunciata dalle statistiche con buona pace del merito.
Accanto a realtà consolidate e capaci c’è il rischio che nascano tanti incubatori finanziati che non hanno molta idea su cosa fare e come. Lavorare in una startup può essere romantico, ma se lanciamo mille iniziative senza un disegno non riusciremo a produrre posti di lavoro ma solo delusione. Se guardiamo i nostri concorrenti che fanno meglio a livello internazionale, sul settore tecnologico, hanno sempre delle grandi aziende che guidano. Nel mondo sempre più globalizzato, se è vero che si può aprire una impresa con poche risorse economiche, è anche vero che le barriere ai “nuovi entranti” sono più elevate in termini di capacità finanziaria e clienti e marketing.
Le grandi multinazionali tecnologiche continuano ad investire consistenti profitti in ricerca e brevetti e in qualche caso incamerano startup per evitare concorrenti scomodi.

Quelle italiane? La risposta è in parte nel decreto Crescita 2.0. Però va ancora costruita una politica industriale in grado anzitutto di smuovere la domanda di beni e servizi qualificati e riattivare le grandi imprese italiane di settore, sia esse pubbliche che private.
Il cuore di una impresa di successo è la vendita. Ma il nostro è un paese con una domanda di beni e servizi qualificati insufficiente e con un crollo dei prezzi del lavoro intellettuale. La strada per sviluppare un sistema di imprese ad alta specializzazione tecnologica o ad alta creatività rimane quella di creare una domanda qualificata. Oppure stimolare la nascita di nuove idee in uno o due settori dove l’Italia è già forte, o promuoverere un l’ intervento pubblico, crearendo aziende specializzate in filiere strategiche. Incentivare la domanda pubblica aiuterebbe molto di più le imprese ad investire in innovazione che non incentivi a pioggia su idee non sempre brillanti.

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