Lo chiamano second screen ed è già la nuova frontiera della pubblicità. In un settore in cui la tv gioca sempre più stancamente la parte del leone, solo il video online cresce (+12% nel 2012, secondo Nielsen) e attrae porzioni di budget prima destinate alla tv (come indicano dati Iab ma anche di player del settore come Be On). L’idea è dunque quella di potenziare il messaggio in tv con la forza dei nuovi media e dei nuovi schermi.
Per il bacino di utenti gigantesco e il coinvolgimento diretto, molti sponsor utilizzano già i social network per far rimbalzare le campagne pubblicitarie televisive, ancora deboli in interazione con il pubblico, notano gli analisti di eMarketer. Ma si può andare oltre, perché i canali sono molteplici (blog, motori di ricerca, siti video) e così gli schermi (tablet, smart tv, smartphone). Ecco che le aziende (spesso grandi brand) disegnano campagne pubblicitarie multipiattaforma, fatte di sondaggi, concorsi, giochi, discussioni e soprattutto contenuti (video) trasmessi su web, mobile, smart tv, console. Questi contenuti sono spesso manipolabili e condivisibili dagli utenti.
La citata Be On, divisione globale di Aol che realizza programmi di branded content (con video che vanno oltre i 30 secondi) ha creato per esempio il video che celebra i 20 anni di carriera di Francesco Totti: porzioni del video sono prelevabili e condivisibili dagli utenti sui social network. Con logiche simili Be On ha lavorato in Italia con Unicredit e Pril. “Il mercato italiano è ancora piccolo e penalizzato dall’assenza di una capillare copertura broadband, ma con grandi potenzialità: una nostra indagine mostra che gli utenti (l’85%) apprezzano i branded video perché possono guardarli quando vogliono, c’è più controllo”, afferma il managing director italiano Giorgia Giannattasio.
Le campagne multipiattaforma moltiplicano le opportunità. “Non bisogna fermarsi a uno screen, ma indirizzarsi a tutti i device, soprattutto i più innovativi”, osserva Luca De Cesare, managing director di smartclip Italia, che distribuisce pubblicità video su web, smartphone, tablet, smart tv, gaming console (per oltre 160 brand, tra cui Il Gambero Rosso). “L’interesse dei clienti alla pianificazione pubblicitaria multipiattaforma sta salendo e le aziende più visionarie hanno dei media manager dedicati”. Ci sono anche ombre. I grandi player sono stranieri, anche perché creare e distribuire su scala internazionale campagne di advertising online con una piattaforma proprietaria richiede grandi investimenti. Inoltre, è vero che gli utenti italiani sono multitasking e ben dotati di smartphone, come evidenziato dall’indagine Mediascope di Iab Europe (il 41% di utenti accede online da più device, il 57% usa Internet mentre guarda la tv), ma resta il fatto che in Italia è connessa solo poco più della metà della popolazione “e non è detto che tutti i possessori di smartphone lo utilizzino per navigare”, osserva Simona Zanette, presidente Iab Italia. “Le aziende devono creare prodotti user-friendly, ma anche PA e governo devono sostenere la diffusione delle tecnologie per portare più persone online”.
Però “le smart tv sono un’opportunità che l’Italia rischia di mancare: solo metà di chi le acquista le usa per navigare. E i device disponibili sono principalmente a navigazione chiusa attraverso app, i contenuti a disposizione sono pochi e percepiti dall’utente come poco interessanti. Occorre uno sforzo in più”.
C’è un altro tema. Alle aziende la pubblicità online piace perché i risultati sono misurabili, tanto che DG MediaMind, società che gestisce campagne di advertising, ha introdotto la metrica della “viewability”, cioè la percentuale di pubblicità effettivamente visualizzata, e non semplicemente servita, indice di maggiore e misurabile efficacia.
Ma se il web è pieno di video “brandizzati” e di “conversazioni” con le aziende, la separazione tra comunicazione libera e messaggio promozionale diventa sempre più sottile. Come spesso accade ognuno dovrà fare la sua parte: il Garante privacy dovrà tutelare l’utente senza ostacolare un ecosistema che crea business e lavoro, le aziende dovranno generare valore senza diventare invasive e l’utente dovrà affinare i suoi strumenti di valutazione. Lo sta già facendo: un recente studio (Digital Advertising Attitudes Report, Upstream/YouGov, 2012) rivela che oltre il 20% degli americani (e il 27% in Uk) smetterebbe di utilizzare un prodotto o un servizio qualora ricevesse troppa pubblicità e più del 10% arriverebbe a protestare sui social media contro un’azienda troppo “martellante”.