Meglio tardi che mai. La decisione di Poste Italiane di entrare nel capitale di Tim è il primo fatto positivo da molto tempo perché marca una controtendenza rispetto al progressivo deterioramento del patrimonio industriale ed umano dell’azienda che dura praticamente dalla fine del secolo scorso, quando fu avviata la privatizzazione.
Va ricordato che, verso la fine degli anni ’90, l’allora Telecom Italia era la quinta realtà al mondo nel settore, era presente in diversi Paesi del mondo e presentava una capacità tecnologica di tutto rispetto. Economicamente sana e adeguatamente capitalizzata, era perfettamente in grado di affrontare la sfida della globalizzazione. Nel 1997 il fatturato dell’epoca, convertito in euro, era di oltre 23 miliardi, i debiti sotto gli 8 miliardi, gli investimenti pari a circa 6,5 miliardi ed erano oltre 120.000 i dipendenti. Nulla a che vedere con i numeri della Tim di oggi.
Forse è per questo che neppure i più agguerriti neoliberisti nostrani hanno osato alzare la voce di fronte all’avvio del cammino inverso con il rientro del capitale pubblico in quel che resta dell’azienda.
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L’interesse industriale
La qualità dell’intervento autorizza a ben sperare, si tratta dichiaratamente di un interesse industriale, non della semplice sostituzione di Cassa Depositi e Prestiti nella compagine sociale. L’ ambizione dichiarata e ad oggi perseguita, è quella di consolidarsi come azionista di riferimento, con una partecipazione che presumibilmente si fermerà solo a ridosso della quota che farebbe scattare l’obbligo dell’Opa.
In questo modo si da finalmente una risposta a quanto il sindacato invocava da anni, la stabilizzazione di un assetto proprietario che non fosse di semplice speculazione finanziaria ma che costituisse un chiaro, definito e solido timone industriale.
Ci si era provato timidamente qualche anno fa ai tempi del governo rosso-verde, ma era infine mancato il coraggio di una netta scelta di campo.
Del resto, come giustamente fanno notare molti commentatori, il nostro Paese riesce a prendere decisioni importanti solo dopo che il disastro si compie. La recente separazione della rete, al di là delle stucchevoli motivazioni a corredo, era semplicemente la presa d’atto che dopo aver venduto negli anni precedenti tutti o quasi (fa eccezione Tim Brasil) i gioielli di famiglia si era oramai di fronte al rischio di fallimento sotto il soffocante peso di un debito mostruoso che, ironia della sorte e in ossequio alla natura profonda del nostro capitalismo senza capitali, era stato generato esattamente per privatizzare l’azienda. Tim fu sostanzialmente comprata a debito ricorrendo al sistema bancario, e quel debito fu successivamente posto in capo all’azienda stessa.
Ma anche la strategia che aveva portato alla separazione societaria della rete dando vita a FiberCop ha mostrato subito la corda. La nuova azienda appare già gravemente condizionata dalla pretesa di assicurare in primis il rendimento speculativo atteso da Kkr. Tutti gli altri obiettivi di medio e lungo periodo sono sacrificati a questa condizione, ed allora tarda il varo di un credibile piano industriale.
Dall’altro lato anche la nuova Tim, pur liberata dalla rete e conseguentemente da una parte consistente del debito, restava ostaggio di un assetto societario condizionato dall’ingombrante presenza francese. Chiamata a lavorare in un mercato asfittico che tarda a trovare una riforma strutturale e costretta a tenere il passo degli investimenti stava rischiando un ulteriore “spezzatino” con la vendita delle parti più redditive.
Questa prospettiva deve essere apparsa preoccupante anche dalle parti del Governo, giustamente consapevole del rischio di una pessima figura e, gioco forza, si è dovuto correre ai ripari.
Il mercato di riferimento
Ciò detto resta il fatto che l’ingresso di Poste può essere l’occasione per salvare il salvabile. Non sarà una passeggiata, ci sono almeno un paio di nodi che occorre aggredire con urgenza.
Il primo è l’esigenza di rimettere un po’ di razionalità nel mercato di riferimento, ricostruendo i fondamentali per uno sviluppo quanto mai necessario.
Non è impossibile, il settore vanta milioni di clienti sulla rete fissa e circa 120 milioni di sim attive. Una manovra sui ricavi è alla portata, un aumento impercettibile, tipo 10 centesimi al giorno sulle sim, porterebbe al fatturato del settore un apporto di oltre 4 miliardi di euro l’anno.
La prima azione quindi non può prescindere da un intervento che porti al consolidamento dell’offerta. In questa prospettiva, anche grazie al nuovo orientamento che pare affermarsi nelle Authority di regolazione del sistema a livello europeo, suggerisco di esplorare, oltre ai classici riassetti societari, la via di forti accordi commerciali, per loro natura più rapidi e meno complicati nella realizzazione. Si potrebbe partire da qui, senza escludere a priori soluzioni più radicali.
Il nodo degli utili
La seconda questione, di importanza strategica, è come impiegare l’auspicato ritorno degli utili grazie ad un mercato tornato profittevole. La tentazione può essere di lucrare sulla domanda presente destinando la parte maggiore del ritrovato utile in lauti dividendi, fino alla prossima crisi.
Interpretare ancora il settore con un’ottica esclusivamente commerciale sarebbe un errore grossolano. Vendere connessioni non è come vendere il salame, serve guardare avanti e investire nell’evoluzione della domanda pensando ai nuovi servizi all’oggi non ancora immaginabili.
Scegliere di previlegiare l’innovazione e lo sviluppo di nuovi servizi significa amplificare la vocazione industriale del settore che sempre più dovrà evolvere dalle Tlc (telecomunicazioni) a qualcosa di molto affine all’Ict, cioè all’utilizzo integrato di Cloud, Intelligenza Artificiale, IoT (internet delle cose), reti intelligenti in grado di accompagnare la digitalizzazione dei servizi pubblici e privati occupandosi dei bisogni di oggi e di domani delle persone.
Conseguentemente la parte rilevante degli incrementi di ricavi e di utili dovranno finanziare la ricerca e lo sviluppo per restare al passo coi tempi e per costruire il futuro a sua volta generatore di nuova domanda e di nuovi servizi.
Su questa strada, prima o poi, si incrocerà di nuovo il tema delle reti e forse si capirà che la separazione dai servizi non è un grande affare, che il 5G e la rete in fibra sono un tutt’uno, non ha senso separarli artificialmente come non ha senso la duplicazione o triplicazione delle reti in alcuni luoghi e la desertificazione di altri
Una moderna e veloce connessione è già oggi un diritto strettamente connesso alla cittadinanza e un Governo serio se ne dovrebbe occupare.
Se non si metterà mano rapidamente anche a questa parte del problema è facile prevedere che tra pochi anni, finiti i fondi del Pnrr avremo reti incompiute e due aziende, FiberCop e OpenFiber in gravissima difficolta.
Sta a noi la scelta, ed in primis sta al Governo che non può esimersi dall’occuparsi della politica industriale di un settore così intimamente legato al benessere e allo sviluppo collettivo del Paese.