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Poste-Tim, un matrimonio con qualche nube



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L’operazione potrebbe produrre interessanti sinergie su pagamenti digitali e servizi finanziari. Ma in un mercato delle Tlc ridimensionato, vanno eliminate le incertezze che ancora pesano sul futuro della società. L’analisi di Augusto Preta, founder di ITMedia Consulting

Pubblicato il 11 apr 2025



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L’ingresso di Poste italiane nel capitale di Tim-Telecom Italia rappresenta l’ultimo capitolo della quasi trentennale storia dell’ex monopolista, privatizzato nel 1997, alla vigilia della liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni in Europa, avvenuta il 1° gennaio 1998.

Ora, con l’acquisizione del 15 per cento delle azioni ordinarie da Vivendi, Poste italiane è diventata così il maggiore azionista di Telecom Italia: detiene complessivamente il 24,81 per cento dei titoli ordinari, appena al di sotto della soglia del 25 per cento che la obbligherebbe a lanciare un’offerta pubblica di acquisto totalitaria su Tim.

La svolta è significativa e ha implicazioni economiche e strategiche importanti, perché la vicenda di Telecom Italia s’intreccia necessariamente con quella delle telecomunicazioni nel nostro paese e dunque merita, proprio in questa chiave, di essere analizzata.

Il ridimensionamento di Telecom Italia

La perdita di centralità e il forte ridimensionamento di Telecom Italia nel panorama delle comunicazioni elettroniche europee e nazionali è la conseguenza di numerosi passaggi di proprietà, successivi alla privatizzazione, che hanno portato alla progressiva erosione del valore dell’azienda nel corso degli anni. 

La madre di tutte le operazioni è certamente l’Opa del 1999, quella dei “capitani coraggiosi” secondo la definizione coniata dall’allora capo del governo, Massimo D’Alema, con la quale Roberto Colaninno, attraverso Olivetti, acquisì il controllo di Telecom Italia. Fu una delle più grandi operazioni finanziarie dell’epoca: un’azione da circa 50 miliardi di euro, finanziata quasi interamente a debito. Un debito che venne poi caricato su Telecom Italia al momento dell’uscita, nel 2001.

Il fardello si è rivelato troppo pesante da sostenere e ha reso la società sempre meno competitiva, portandola a perdere peso e rilevanza nel mercato globale delle telecomunicazioni. Al tempo dell’Opa, Telecom Italia era la sesta società al mondo, con un fatturato di 30 miliardi di euro, il valore delle azioni a 10 euro e un bassissimo livello d’indebitamento. Disponeva di uno dei principali centri di eccellenza al mondo nella ricerca (Cselt), contribuendo a numerose e fondamentali innovazioni tecnologiche, quali ad esempio gli standard Mpeg e Mp3 e la fibra ottica.

I successivi cambiamenti nella catena di controllo (Tronchetti Provera, Telefonica, Benetton e Generali, Vivendi, Elliott e Cdp) non hanno modificato lo stato di crisi, semmai lo hanno accentuato. Oggi Telecom Italia si colloca a malapena tra le prime venti società al mondo, il valore delle azioni è sceso a 30 centesimi, il fatturato a 14 miliardi di euro. L’indebitamento di 43 miliardi di euro, lasciato in dote al momento della vendita a Tronchetti Provera (2001), ha inciso enormemente sulla capacità di investire in nuove tecnologie e infrastrutture, e dunque sulla possibilità di rimanere competitiva nell’arena globale.

La decisione del 2023 di cedere la rete al fondo Kkr, il suo asset più importante e non replicabile fino all’ingresso di Open Fiber, è stato un passaggio doloroso ma necessario per ridurre sensibilmente il debito e concentrarsi sull’offerta dei servizi.

Il ridimensionamento delle telecomunicazioni

Se Telecom Italia ha perso terreno nei confronti delle altre società del settore, dall’altro lato le telecomunicazioni hanno perso parte della loro attrattività rispetto ad altri settori tecnologici – un fenomeno legato a diversi fattori della trasformazione digitale.

In primo luogo, le telecomunicazioni sono diventate un settore ad alta competizione e bassi margini, soprattutto a causa della diffusione delle reti mobili e a banda larga. Gli operatori devono investire miliardi in infrastrutture (come il 5G e la fibra ottica) senza poter sempre ottenere ritorni proporzionali, mentre le tariffe tendono a diminuire per via della concorrenza.

Il tradizionale mercato delle telecomunicazioni legato alla connettività è già altamente sviluppato e ormai saturo, con copertura quasi totale nelle economie avanzate. I servizi Ott (Over-The-Top), come WhatsApp, Skype, Netflix e Zoom, hanno ridotto il ruolo tradizionale degli operatori di telecomunicazione. Un tempo le telco gestivano direttamente le chiamate, gli sms e la tv, oggi tutto avviene tramite piattaforme digitali che utilizzano le loro reti e, nella percezione delle telco, pur incrementando il traffico, non contribuiscono direttamente ai loro ricavi.

In generale, il valore si è spostato dai provider di infrastrutture agli operatori software e cloud. Aziende come Google, Amazon, Apple e Microsoft dominano il mercato grazie a servizi digitali innovativi, mentre le telecomunicazioni sono percepite come un settore più tradizionale e meno redditizio, dove non ci sono più opportunità di crescita come accade in altri settori, quali ad esempio la data economy, fintech, intelligenza artificiale o cybersecurity.

Così, per cercare di recuperare almeno in parte un ruolo da protagonista nella trasformazione digitale, l’unica strada percorribile per le telco è di reinventarsi, sviluppando nuovi modelli di business e puntando sempre più sull’ampliamento dei servizi, con offerte integrate con servizi digitali (cloud, cybersecurity, fintech), sull’espansione nei settori del data analytics e dell’internet delle cose (IoT) e sulla creazione di nuove partnership con aziende tecnologiche per innovare l’offerta.

Nel pensiero di alcune telco (gli incumbent europei, tra cui Tim), ciò può avvenire solo a condizione che venga alleggerita la regolamentazione nazionale ed europea, dal momento che il rispetto di vincoli sulla protezione dei dati e soprattutto sulla concorrenza – leggi consolidamento – limita la loro capacità di espandersi liberamente, rendendo il settore meno dinamico rispetto agli altri ambiti tecnologici.

Quanto ciò dipenda da vincoli regolamentari è tutto da dimostrare, quel che è certo comunque è che le società di telecomunicazioni europee faticano a generare profitti superiori ai costi del capitale, e quindi le fusioni e le acquisizioni restano la soluzione preferita dal settore per continuare a crescere.

Le prospettive con l’ingresso di Poste italiane

L’ingresso di Poste italiane in Telecom Italia segna di fatto il ritorno dello stato nella gestione di Telecom Italia, dopo decenni di controllo da parte di investitori privati. Poste italiane, controllata per poco meno del 65 per cento dal governo, potrebbe favorire una maggiore stabilità finanziaria e una visione più a lungo termine per il gruppo, con un focus su investimenti e digitalizzazione.

Se da un lato le sinergie industriali tra le due aziende nel settore della telefonia si prospettano meno rilevanti, dato il limitato peso dei servizi di telecomunicazioni di Poste (dando per scontato in ogni caso il passaggio dell’operatore virtuale telefonico da Vodafone a Tim), dall’altro potrebbero essere più interessanti quelle relative ai pagamenti digitali e ai servizi finanziari.

In particolare, sono ipotizzabili soluzioni per facilitare l’accesso ai servizi della pubblica amministrazione (identità digitale, sistemi di pagamento digitali), un’espansione dei servizi di cloud e sicurezza, proteggendo i dati sensibili e facilitando la gestione sicura delle identità digitali, nuove soluzioni per l’e-commerce e la logistica.

Tutto questo richiede però forti investimenti, e i 684 milioni di euro in contanti che dovrà versare per l’acquisto della quota azionaria da Vivendi incidono sulla liquidità anche di un operatore come Poste, riducendo di fatto le possibilità di manovra e rafforzando l’ipotesi di un’ulteriore operazione di consolidamento del mercato nazionale, collegata all’ingresso di Iliad.

Tuttavia, la presenza di Poste potrebbe complicare ulteriormente questo processo, dal momento che Iliad già detiene il 15 per cento del mercato mobile italiano e vorrebbe contare nelle scelte strategiche della nuova società. Con l’aumento dell’influenza di Poste, un’operazione di questo tipo sembra oggi più difficile da realizzare e anche l’operatore francese potrebbe essere più cauto nel manifestare interesse per una quota di controllo in Tim.

In definitiva, dunque, l’ingresso di Poste apre nuovi scenari per Tim, ma al contempo richiede alcuni passaggi decisivi per eliminare i dubbi e le incertezze che ancora accompagnano il futuro della società e, più in generale, delle telecomunicazioni in Italia.

Questo articolo è stato pubblicato su lavoce.info

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