L’Italia? Un Paese alla periferia dei grandi imperi dell’innovazione. Per Enrico Moretti, giovane brillante economista che insegna a Berkeley, siamo di fronte a una nuova geografia del lavoro, rivoluzionata dall’hi-tech, e a una forte polarizzazione del mondo produttivo. Abbiamo incontrato Moretti all’Università degli Studi di Milano dove ha svolto la VII lezione Ibm in Studi del Lavoro.
Perché studiare oggi le trasformazioni geografiche?
Negli ultimi 30 anni ci sono stati cambiamenti significativi: aree prospere, capaci di creare posti di lavoro e alti salari, stanno perdendo terreno; altre, meno ricche, sono diventate più forti e dinamiche. Cambiano i luoghi in cui si produce, si modificano merci e processi, determinando cambiamenti epocali nella localizzazione dell’attività economica.
Questo si deve alle tecnologie?
Più in generale all’innovazione. Nei Paesi occidentali siamo passati da economie basate sul physical capital a quelle centrate sullo human capital. A partire dagli anni ’80 l’educazione ha determinato effetti crescenti. Detroit, Cleveland, Filadelfia, a tradizione industriale, hanno perso terreno su Washington, New York, Los Angeles, Seattle dove l’economic output per km quadrato, il numero di laureati o brevetti per numero di lavoratori è notevolmente più alto.
È un divario stabile o in crescita?
La distanza tra questi “brain hub” e le aree “a trazione manifatturiera” si sta allargando. Si nota, per esempio, nei salari. A parità di scolarizzazione e funzione aziendale, lavorare come ingegnere del software a New York rende molto di più rispetto a Flint in California. Settori come hi-tech, entertainment, robotica, marketing, biotech ecc. portano alla concentrazione della popolazione a più elevato potenziale in alcune grandi città ed è un trend, peraltro, che si auto-rinforza col tempo.Eppure gli evangelist della tecnologia dicevano che nell’economia dell’immateriale avremmo potuto lavorare ovunque.La visione per cui Internet e l’e-mail ci affrancano dalla geografia circola da almeno due decenni: nel “mondo piatto” di Thomas Friedman non importa dove sei perché puoi accedere alla stessa quantità di informazioni e costruire rapporti umani tramite la tecnologia. Questo, però, non si è verificato. Anzi è accaduto il contrario per la stragrande maggioranza delle persone. Non c’è evidenza empirica che Internet abbia ridotto l’importanza di vivere in determinate città per avere buone chance di lavoro. Il paradosso è che viviamo in un mondo sempre più globale e connesso, ma il mercato del lavoro si sta polarizzando proprio grazie all’hi-tech a livello geografico e in termini qualitativi.
Per esempio?
Un caso storico è il contrasto tra Albuquerque e Seattle. Bill Gates visse per un periodo nella prima città, ma decise di tornare dalla famiglia, nella seconda e qui impiantò il proprio business. Oggi Seattle è centro mondiale dell’innovazione, mentre Albuquerque è “periferia”, zona di call center dove si richiedono minori competenze lavorative.
Pensa, come Richard Florida, che sia utile far leva sulle classi creative per risollevare le sorti delle economie locali?
Centinaia di città Usa stanno investendo per rivitalizzare il proprio centro e attrarre queste figure, ma non c’è evidenza che sia una soluzione valida ai problemi economici. I creativi vanno dove ci sono buoni posti di lavoro. Ricchezza e vitalità culturale di una città seguono la creazione di buoni posti di lavoro, non necessariamente la precedono.
Rifkin parlò di “fine del lavoro”: le macchine avrebbero aumentato il tempo libero, ma cancellato posti di lavoro. L’hi-tech genera occupazione o la distrugge?
L’innovazione ha aumentato l’occupazione, ma nel segmento delle produzioni avanzate e brain intensive. Il manufacturing negli Usa, al contrario, è passato da 40 milioni di addetti a fine anni ’70 agli attuali 12. Rifkin non aveva completamente torto: c’è un progresso che gli economisti chiamano labour saving che riduce la manodopera e poi c’è un processo tecnologico complementare al lavoro, labour augmenting, che genera domanda di lavoro. L’occupazione ne risente in termini complessivi a seconda della forza più o meno marcata degli effetti di queste due dinamiche, che possono certamente coesistere.
Nel libro “La nuova geografia del lavoro” sostiene che per ogni posto di lavoro creato in centri di eccellenza ne vengono creati cinque in altri settori. Perché?
Per tre ragioni. La prima è che i salari sono più alti e quindi generano più reddito disponibile speso in servizi locali e alla persona. Le imprese hi-tech tendono poi a essere più collegate tra loro e infine c’è un fattore leva sul futuro. L’innovazione genera indirettamente posti di lavoro anche domani, non esaurisce la sua portata nel consumo di prodotto.
Nel mondo crescono Bangalore, Pechino, Mexico City. E in Europa?
Stoccolma registra oggi la crescita più alta, ma ci sono anche città come Londra, Monaco o Amsterdam.
E il nostro Paese?
Sta in periferia. Per quattro ragioni, a mio avviso: la piccola dimensione delle imprese, gli investimenti limitati in capitale umano, una cultura poco sviluppata e specializzata dei venture capitalist e l’inabilità strutturale a rispettare e rinforzare le regole e le leggi. Tutto questo aumenta il gap dal gruppo di testa.
Dove incidere a livello legislativo?
Certamente un elevato costo del lavoro distoglie risorse all’innovazione, ma un ecosistema innovativo non nasce per legge, bensì grazie a imprenditori-calamita. I nuovi Bill Gates devono essere incoraggiati a rimanere in Italia, un Paese comunque ricco di talenti.
Pensa di tornare?
No, per ora sto bene dove sono.