Grandi trasformazioni in vista nella geografia delle telecom europee? Non è scontato. Almeno così la pensa Bruno Basalisco, oggi in forze a Copenhagen Economics ed in precedenza membro del chief economist team di Ofcom, l’authority per le comunicazioni britannica. Secondo il consulente, le spinte al consolidamento paneuropeo non solo si scontrerebbero contro i sempreverdi “ostacoli a livello di politica nazionale”, ma non sarebbero troppo incoraggiate neppure dalle stesse “caratteristiche industriali del settore”.
Basalisco, il settore delle telecom europeo è così in crisi come dicono? E lo è, come sostengono molti, a causa della frammentazione e di un’eccessiva enfasi regolamentare sulla concorrenza?
Piuttosto che frammentazione e concorrenza, è appunto il confronto con gli over the top che segnala come il servizio telecom rischi di diventare sempre più una commodity. Gli utenti percepiscono traffico voce e dati sempre più come un’utenza “on tap” – un po’ come acqua corrente o elettricità. Se questo debba essere fonte di malinconia dipende dalle aspettative degli operatori telecom: i meno ambiziosi potrebbero accontentarsi di tassi di remunerazione del capitale da “utility” – imprese con rendimenti non certo esplosivi ma anche rischi minori. D’altro canto, è sicuramente riduttivo appiattirsi solo sul paragone con le utility tradizionali, quando certe caratteristiche delle reti telecom (per esempio la mobilità) hanno il potenziale di costituire a lungo una fonte di grande valore per gli utenti.
E’ ormai opinione diffusa che una rinnovata spinta al consolidamento sia inevitabile per curare le sofferenze del settore telecom europeo.
Il confronto con la scala globale degli operatori over the top induce molti operatori telecom ad esprimere desideri di consolidamento, magari per poter ambire a negoziare più favorevolmente con gruppi come Apple, Facebook o Google o con i produttori nel settore dell’elettronica. La natura globale di internet e la negoziazione col settore dell’elettronica non sono però novità per il business telecom. Dunque se questi fattori creano davvero gran beneficio per chi ha una scala maggiore, è legittimo chiedersi come mai siano state ad oggi messe in pratica ben poche spinte verso un’integrazione paneuropea. Vi sono a riguardo due spiegazioni, per me collegate. In primis, le caratteristiche industriali del settore: una fusione internazionale non consente risparmi sostanziali sulle reti di accesso locali (fisse o mobili). E l’ultimo miglio è sempre più un driver chiave di costo (più dell’elettronica). In secondo luogo, i tentativi di consolidamento rischiano spesso ostacoli a livello di politica nazionale, come emerso nel caso del tentativo di fusione KPN-Belgacom un decennio fa ed adesso – per i corsi e ricorsi storici – in quello ormai vanificato di América Móvil di acquisizione completa di KPN, oltre che nel caso Telefónica – Telecom Italia. Tuttavia, in altre industrie, anche in presenza di proprietà statale, il consolidamento internazionale è stato comunque possibile in certi casi (si pensi a SAS o PostNord). Il consolidamento telecom non sarà magari una panacea ma spetta agli operatori dimostrarne chiaramente i benefici, coinvolgendo la classe politica a vari livelli per renderla partecipe e non ostacolo del cambiamento.
Anche se in molti celebrano le virtù di un mercato paneuropeo l’impressione è che parecchi incumbent usino quest’argomento per favorire piuttosto forme di consolidamento intra-nazionale…
È possibile che alcuni messaggi abbiano fini di questo tipo, seppur con minimo impatto sull’operato dell’antitrust europeo, che sotto la gestione Almunia ha mantenuto come sempre un’attenzione costante ai casi di fusioni intra-nazionali. Le authority nazionali hanno anch’esse il massimo interesse ad ostacolare fusioni nazionali dove la riduzione del numero degli operatori abbia un impatto più che minimo sulla concorrenza.
Guardando al “risiko” delle telco di oggi, come immagina la geografia delle telco europee tra due anni?
Mi permetto di rigirare la domanda: se fossi un politico europeo o nazionale preferirei concentrarmi non sul “risiko”, ma guarderei piuttosto al “monopoly”, cioè alla dimensione micro. In altri termini, occorre chiedersi, regione per regione, quali connessioni avrà a disposizione la casa (e l’ufficio) del futuro per fruire di informazioni e contenuti. E in particolare, quante case e uffici avranno una connessione in fibra ottica, e dove. Mi sembra questa la dimensione più importante. Se le regole sono uguali per tutti, la casacca nazionale o internazionale dei fornitori di queste connessioni dovrebbe importare meno.
Parliamo dei rumours sugli appetiti di gruppi extra-UE per l’Europa. Perché espandersi su un mercato che, per citare l’FT, è “deflazionistico, iper-regolato e iper-concorrenziale?
Anche qui è utile andare a guardare agli investimenti effettivi prima che alle dichiarazioni su carta. In Europa abbiamo fin qui visto l’operato di gruppi non europei come Hutchinson e VimpelCom (Wind, dopo Sawiris) nel mobile, AT&T nei business services, Liberty Global nelle reti via cavo. Inoltre, Slim, l’uomo più ricco del mondo, ha investito in KPN (e ha cercato invano di investire maggiormente), il che può essere non solo una forma di diversificazione ma anche un segnale di fiducia verso il settore telecom in Europa. In generale, un gruppo extra-UE può essere interessato a fare esperienza in Europa, che presenta un mercato maturo e una regolamentazione evoluta, per poter poi gestire in futuro fenomeni simili in altri mercati, traendone beneficio. Inoltre, la grande liquidità in circolazione (per esempio dalla Fed) può aumentare il vantaggio di investire in settori utility in Europa, anche con rendimenti attesi limitati.