LA POLEMICA

La Web tax secondo il governo Letta

La proposta Boccia e le misure a sostegno dei libri sono misure estemporanee che rispondono a sforzi lobbistici. Ma non a disegni politici di lungo periodo. E rischiano di ottenere effetti indesiderati o insignificanti

Pubblicato il 20 Dic 2013

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Si dice che il peggior avvocato sia quello che difende con gli argomenti sbagliati il cliente che ha ragione. Allo stesso modo, il peggior legislatore è quello che cerca di rispondere con leggi sbagliate a esigenze giuste. In questa Legge di stabilità ve ne sono alcuni vistosi esempi, quali la cosiddetta “Google tax” e le misure a sostegno dei libri. Ambedue si presentano come misure estemporanee che rispondono a sforzi lobbistici piuttosto che a disegni politici di lungo periodo e, come spesso capita in questi casi, rischiano di ottenere effetti indesiderati o insignificanti.

Il fatto che compagnie come Google, Amazon e Facebook, pur in presenza di fatturati importanti, paghino imposte pressoché minimali in Italia è qualcosa che impone una riflessione, se non un intervento concreto. Tre elementi concorrono a determinare una situazione siffatta: la libertà di stabilimento e la libera circolazione di beni, servizi e fattori produttivi all’interno dell’Unione Europea da un lato e, dall’altro lato, la competizione fiscale tra paesi spingono le imprese a collocarsi nel paese con il regime fiscale più favorevole e a esportare da lì in tutti gli altri. Nei settori dell’informazione, o dove i costi di trasporto sono ridotti, questa strategia diventa generalizzata e ha pochi elementi di attrito.

Nella sua prima versione, la cosiddetta “webtax” (fortemente voluta da Francesco Boccia, deputato Pd e presidente della Commissione bilancio della Camera) imponeva ai soggetti italiani di acquistare servizi online – dalla pubblicità al commercio elettronico – da imprese dotate di partita Iva italiana: il legislatore si prefiggeva il fine di obbligare le multinazionali di internet, come Google, Amazon, Facebook e le altre, a costituire soggetti giuridici italiani da sottoporsi a tassazione all’interno del nostro paese.
In una seconda versione – quella entrata nella stesura finale della Legge di stabilità – l’obbligo di partita Iva resta per la pubblicità online, mentre è stato tolto per il commercio elettronico. Per dirla con una battuta: Amazon libera, Google in croce.

Un primo problema è costituito dal fatto che si tratta di una risposta non organica, che non prefigura una strategia di lungo periodo per limitare un’area grigia effettivamente problematica, ma piuttosto di una mossa d’impulso che ha già suscitato possibili rilievi da parte della Commissione europea.
A priori si potrebbe obiettare che un paese in forte ritardo nella sua Agenda digitale, cioè nello sforzo di aumentare l’efficienza del sistema attraverso lo spostamento online di molte attività e servizi, dovrebbe incentivare quello spostamento anche dal punto di vista fiscale, con un regime di tassazione basso: sotto questo profilo, la competizione fiscale con paesi ad aliquote basse finisce per ottenere lo scopo senza ulteriori interventi da parte dei pubblici poteri italiani.

Dall’altro lato, le esigenze di gettito delle nostre pubbliche finanze spingono nella direzione opposta, ovvero a eliminare in maniera rigorosa le sacche di esenzione, anche quando vi sarebbero ragioni di politica industriale non irrilevanti. Su questo punto la scienza delle finanze fornisce indicazioni chiare: perde in partenza il paese che lotta in solitaria contro la competizione fiscale, in quanto la risposta più immediata consiste nel privilegiare altri mercati per la vendita di pubblicità online, a discapito dello sviluppo del settore all’interno del nostro paese. Intendiamoci: non stiamo parlando di una sparizione del settore – che è totalmente irrealistica – ma di un rallentamento del suo tasso di crescita che lo potrebbe arrivare fino a una stagnazione. La via maestra consiste invece nel coordinamento fiscale tra paesi, se l’intenzione è quella di combattere una competizione ritenuta distruttiva di base imponibile, cioè di gettito per gli Stati. Quindi, l’Italia dovrebbe creare un fronte comune con paesi come la Francia e la Germania per trovare soluzioni coordinate a livello di Unione Europea.

La seconda misura riguarda la possibilità di detrarre l’ acquisto di libri fino a un importo massimo di mille euro per i testi scolastici e mille euro per gli altri libri. Innanzitutto, la misura esclude gli e-book, come se questi non costituissero supporto per la lettura. In secondo luogo, gli italiani che leggono spendono mediamente 100 euro l’anno per l’acquisto di libri. Quindi un tetto di 2mila euro appare totalmente sbilanciato, in quanto produce un effetto quantitativamente rilevante solo per i grandi lettori. Per arrivare ai mille euro, occorre acquistare oltre cinquanta libri l’anno: un livello di consumo che riguarda meno dell’1 per cento della popolazione. Invece nella zona dei lettori deboli, quelli da uno-due libri, l’effetto probabilmente sarà trascurabile. Volendo aumentare la lettura, soprattutto al margine dei non lettori, misura che avrebbe un effetto più strutturale, ci sono probabilmente politiche più efficaci. Sarebbe interessante sapere se è stata fatta una valutazione costi-benefici, e sarebbe utile vederla. Per i libri di scolastica l’importo massimo è circa il doppio della spesa annua, ma se si vuole ridurre la spesa delle famiglie con studenti esistono misure più eque, come ad esempio un aumento delle borse di studio. Poiché l’acquisto di libri scolastici è obbligatorio, l’impatto della misura sulla lettura è pari a zero.

Gli unici beneficiari sembrano essere in parte gli editori e soprattutto i librai, ma più nelle dichiarazioni e nelle speranze che nei risultati effettivi. In ambedue i casi, emerge la necessità di allineare obiettivi chiari ed espliciti con misure che effettivamente portino a quei risultati, e non solo a un ambiguo effetto dichiarazione.

Il testo riprodotto è tratto da www.lavoce.info

http://www.lavoce.info/webtax-agenda-digitale-libri-ebook/

Marco Gambaro è professore associato presso il dipartimento di Scienze Economiche Aziendali e Statitiche dell’Università Statale di Milano dove insegna Economia della Comunicazione. I suoi interessi di ricerca riguardano concorrenza, struttura dei mercati e antirust nelle industrie dei media e delle telecomunicazioni.

Riccardo Puglisi ha studiato all’Università di Pavia (dottorato in finanza pubblica) e alla LSE (PhD in economia). Dopo essere stato visiting lecturer al dipartimento di scienze politiche del Massachusetts Institute of Technology e Marie Curie Fellow all’ECARES (Université Libre de Bruxelles), attualmente è ricercatore in economia politica all’Università di Pavia. Si occupa principalmente di political economy, ed in particolare del ruolo politico dei mass media.

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