Scatta la prima denuncia di un’associazione, Iwa Italy, alla Commissione europea contro la web tax, norma relativa alla pubblicità online approvata a fine dicembre nell’ambito della Legge di Stabilità e poco dopo rinviata al prossimo luglio nell’ambito del Decreto Milleproroghe. E anche Andrea Caccia, nell’Advisory Board dell’Anorc (Associazione nazionale per operatori e responsabili della Conservazione digitale) sporge analoga denuncia con simili motivazioni, ma lo fa da privato cittadino e non in rappresentanza della sua associazione.
Iwa Italy, associazione professionale che raggruppa tutti coloro che operano nel web al fine di valorizzare le competenze degli associati, ha dunque sporto denuncia alla Commissione delle Comunità europee per “inadempimenti del diritto comunitario” in relazione a questa norma promossa da Francesco Boccia (Pd) che tanto dibattito e critiche ha suscitato negli ultimi mesi. L’associazione fa riferimento al comma 33 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, che prevede l’obbligatorietà di possedere partita Iva italiana per chi vende pubblicità online nel nostro Paese, e ai commi 177 e 178 della stessa legge, cioè quelli che prescrivono la tracciabilità dei pagamenti nella compravendita di pubblicità sul web. Secondo Iwa Italy le norme violano la Direttiva Servizi 2006/123/CE e la Direttiva sul Commercio Elettronico 2000/31/CE, ovvero le normative comunitarie sulla libera circolazione di beni e servizi in ambito europeo.
In particolare, nella denuncia presentata alla Ue, il presidente Roberto Scano tiene a mettere in evidenza l’“assurdità della norma, che prevede di obbligare al possesso della partita Iva qualsiasi pubblicità presente sul web e visualizzabile sul territorio italiano’”. E, per spiegare meglio il concetto, fa un esempio: “Secondo tale normativa una struttura ricettiva (hotel, B&B) che ha la propria attività in Germania e desidera acquistare della pubblicità online da un sito web tedesco, siccome il sito web è visibile non solo in Germania ma anche in Italia è necessario che la società tedesca apra partita Iva in Italia ed emetta fattura in Italia. Di fatto – prosegue – l’applicazione di parte di questa norma (sospesa sino al 1 luglio 2014) obbligherebbe qualsiasi attività di vendita di servizi promozionali in rete (pubblicità e non solo) ad aprire partita Iva in Italia, anche se l’attività non viene svolta nel territorio italiano (ovvero anche se il venditore e il compratore non sono italiani operanti sul territorio italiano, ma solo per il fatto che il “servizio” è visibile tramite internet anche in Italia)”.
“Abbiamo deciso di sporgere denuncia adesso – spiega Scano – dopo che recentemente un emendamento presentato da Daniele Capezzone (Popolo della Libertà e Forza Italia) per cancellare i tre commi di legge è stato respinto dalle Commissioni Finanze e Attività Produttive della Camera nell’ambito della conversione del decreto Destinazione Italia, e dopo che, nello stesso contesto, è stato bocciato in aula un ulteriore emendamento presentato dalla pentastellata Mirella Liuzzi per eliminare la sola web tax, ovvero il comma 33. Bocciatura che è arrivata dalla maggioranza, Pd compreso. A questo punto abbiamo ritenuto che non ci fosse alcuna volontà di abolire la normativa. Ma i tempi stringono, a luglio entrerà in vigore. Da qui il ricorso alla Ue”.
Anche Andrea Caccia, che tra l’altro è membro del Multi-stakeholder Forum on e-Invoicing della Commissione Europea, ha presentato analoga denuncia alla Ue, però come privato cittadino. Le motivazioni sono analoghe a quelle di Iwa Italy: la norma viola la libera circolazione di beni e servizi nella Ue. Ma Caccia tiene a precisare: “Non sono contrario alla tassazione delle multinazionali, è esattamente l’opposto, e mi dà più fastidio che si voglia far passare chi si oppone a questa legge come fiancheggiatore italiano delle multinazionali del web. Vorrei che Francesco Boccia prendesse spunto da quanto sta facendo la Francia e si adoperasse per capire perché il Fisco italiano non procede nella stessa direzione, magari con un interrogazione parlamentare. In realtà ritengo che questa azione, nella sua inutilità, favorirà le ‘odiate multinazionali’ che avranno buon gioco a ricorrere contro l’applicazione di una legge attaccabilissima”.
A gennaio aveva presentato denuncia alla Commissione europea sulla web tax un privato cittadino, Marco Bazzoni. Anche secondo Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, la normativa, ribattezzata da alcuni google tax o spot-tax, “viola in modo evidente la direttiva europea 2006/123/CEE, detta anche direttiva Bolkestein, all’articolo 16, comma 2”, ovvero quella sulla libera circolazione di beni e servizi in Europa.
A questo punto, a quanto risulta al Corriere delle Comunicazioni, le denunce fatte pervenire alle Ue sulla web tax sono almeno tre: due di privati cittadini, una di un’associazione.
La web tax aveva già suscitato perplessità da parte della Ue al momento della sua approvazione. Emer Traynor, portavoce del commissario europeo per la fiscalità e l’unione doganale Algirdas Šemeta, aveva osservato che “sembrerebbe contraria alle libertà fondamentali e i principi di non-discriminazione stabiliti dai trattati”. E il premier Enrico Letta, in quelle stesse ore, aveva sentito il dovere di segnalare il “bisogno di un coordinamento con le norme europee essenziali”.
Il 28 dicembre la web tax, destinata ad entrare in vigore dal primo gennaio, era stata posticipata al primo luglio, aprendo così la strada a un’eventuale, possibile revisione e armonizzazione della normativa a livello europeo.
Da parte sua Francesco Boccia ha continuato a difendere strenuamente il provvedimento sottolineando che, proprio a causa di questa “battaglia condotta dall’Italia”, il tema della tassazione dei colossi del web nei Paesi in cui operano è diventato “centrale per l’Unione europea”. Con lui nella difesa della web tax anche l’editore Carlo De Benedetti. Tra le numerose voci contrarie il neo segretario del Pd, Matteo Renzi, che fino all’ultimo ne aveva invocato la sospensione. I renziani hanno anche presentato un ordine del giorno per sollecitare il governo a fare riferimento all’Unione europea in modo da rivedere la normativa. Contrari anche il Movimento 5 Stelle, Stefano Parisi, presidente di Confindustria digitale e Riccardo Donadon, presidente di Italia Startup.