Le polemiche di questi giorni in tema di equo compenso sono una riedizione di quanto già visto a fine 2009. Anche allora la Siae propose una nuova disciplina che innalzava enormemente le tariffe ed assoggettava per la prima volta anche dispositivi mai prima di allora gravati (come telefoni cellulari e computer). Anche allora si scatenò un ampio dibattito sulla stampa e sul web.
Ciò che è cambiato rispetto ad allora è stata la reazione del Ministro competente: dalla “salomonica” decisione del ministro Bondi nel 2009 (che adottò lo schema di disciplina proposto dalla Siae, riducendo però le tariffe applicabili ad alcuni dispositivi) passiamo oggi alla sospensione temporanea della procedura di rideterminazione decretata dal ministro Bray.
Avrà forse contribuito a tale scelta la volontà di evitare al nuovo decreto la sorte già subita dal precedente, impugnato innanzi al Tar del Lazio dalle più grandi imprese del settore Ict (chi scrive rappresenta due dei maggiori produttori di telefoni cellulari). Tali impugnazioni sono oggi, a distanza di oltre tre anni, ancora pendenti, dovendo il Consiglio di Stato dire l’ultima parola circa la legittimità del sistema previsto dal decreto Bondi.
Sarebbe stato del resto curioso se si fosse giunti all’approvazione del nuovo decreto senza attendere tale pronuncia che rappresenta, evidentemente, una spada di Damocle sulla legittimità dell’intero sistema. Sono poi attese a breve due sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che si pronuncerà su questioni di cruciale importanza.
Innanzitutto, la Corte stabilirà definitivamente se nella determinazione delle tariffe dell’equo compenso è possibile tenere conto anche delle attività di copia c.d. “illegale” o comunque non realizzate a partire da una copia dell’opera legittimamente acquisita. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, il compenso per copia privata non è uno strumento volto a compensare gli autori per il downloading non autorizzato da internet. Al contrario, si tratta di un istituto introdotto ai tempi delle cassette a nastro, per consentire ai consumatori di effettuare copie dei propri dischi, legittimamente acquisiti, su cassetta, compensando al tempo stesso gli autori per la parziale compressione della propria esclusiva.
E’ evidente che nel mondo di oggi la fruizione delle opere non rispecchia più tale modello “analogico” e le attività di copia privata si vanno progressivamente riducendo. I consumatori che acquistano le opere legalmente lo fanno sempre più in modalità streaming o mediante downloading da internet e se effettuano una copia lo fanno perché autorizzati all’atto dell’acquisto a copiare l’opera su diversi dispositivi. Ne deriva che non si tratta più di una copia “privata”, ma di una copia espressamente autorizzata dal titolare dei diritti. Non a torto, quindi, Confindustria Digitale osserva che “il fenomeno della copia privata è in forte riduzione e, pertanto, il relativo compenso invece di aumentare dovrebbe essere ridotto, se non addirittura eliminato, come è avvenuto in Spagna nel 2012”.
Ora, se la Corte di Giustizia, come ci si attende, confermerà che le attività di copia c.d. “illegale” non devono essere considerate nella determinazione dell’equo compenso, ciò non potrà non avere un impatto anche sulla disciplina italiana. Al fine di offrire dati sempre più in crescita circa il volume delle attività di copia privata, infatti, Siae ha fino ad oggi giocato con l’ambiguità “copia privata=copia illegale=copia autorizzata” nelle proprie verifiche istruttorie volte a stabilire l’ammontare del compenso. A seguito della sentenza della Corte di Giustizia una tale ambiguità non sarà più possibile e si dovranno necessariamente svolgere indagini che escludono in modo chiaro dal calcolo dell’equo compenso tutte le attività che non rientrano nella nozione di “copia privata”.
In secondo luogo, la Corte di Giustizia stabilirà se è legittimo prevedere un sistema, come quello italiano, in cui il compenso è imposto anche su apparecchi che non sono destinati ad un uso personale, bensì professionale (il che esclude la possibilità di realizzare copie private).
Siae ha fino ad oggi sostenuto che il sistema italiano sarebbe legittimo essendo comunque prevista la possibilità – per gli acquirenti professionali – di richiedere successivamente un rimborso del compenso pagato all’atto dell’acquisto (attraverso la procedura bizantina da essa unilateralmente stabilita). Si tratta di un sistema che disincentiva la richiesta del rimborso (chi si imbarca in una tale procedura per richiedere spesso solo pochi euro?) con conseguente vantaggio di Siae, che incamera importi cui teoricamente non avrebbe diritto.
E’ quindi senz’altro condivisibile la scelta del Ministro di approfondire la questione prima di pronunciarsi in materia.