Toffoletto: “La governance perfetta non esiste”

L’avvocato e docente alla Statale di Milano: “Servirebbe un po’ di rigore in più nell’applicazione delle norme del Codice civile”. E sul ruolo dei consiglieri indipendenti dice: “Determinante la professionalità”

Pubblicato il 20 Feb 2014

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In vista del cda di Telecom Italia del 27 febbraio e dell’assemblea di aprile pubblichiamo una serie di opinioni sul tema della governance della società in questo momento al centro del dibattito fra azionisti, organi sociali, stakeholders.

La governance perfetta? “Tutto il mondo la sta cercando. E in fondo anche la crisi che stiamo vivendo è stata imputata a qualche problema di governance nel sistema economico”. Alberto Toffoletto, accademico (docente di diritto commerciale alla Statale di Milano) e avvocato (socio dello studio legale Nctm conosce bene la dottrina degli interessi perseguiti e le complicazioni per metterla in atto. La teoria e la pratica. “Agli studenti spieghiamo tante cose belle e interessanti, ma nella realtà accade diversamente”. Accade quel che sta succedendo in Telecom e che Toffoletto conosce bene, essendo stato lui il professionista che nell’assemblea 2011 rappresentò la Findim di Fossati e l’esigenza di una governance diversa che riconoscesse il ruolo di controllo di Telco. Chi c’era ricorda che allora fece scintille. Tre anni dopo la questione è ancora aperta. E lui preferisce parlarne solo da accademico.

Professore, perché la governance perfetta non esiste ancora?

Se si attraversa la dottrina giuridica e la letteratura, il tema degli interessi perseguiti e di come neutralizzare quelli eventualmente diversi da quelli di tutti i soci è un tema delicatissimo e complicatissimo che è sempre stato lì e resta ancora lì. Negli ultimi 15 anni in tutto il mondo si sono inventati meccanismi correttivi, che spesso si rivelano inadeguati».

Allora vuol dire che è impossibile una buona governance?

No, non dico questo. Voglio solo dire che il tema è annoso e sempre più complesso perché nella ricerca di un equilibrio degli interessi entrano sempre più fattori: il profitto e la responsabilità sociale, il rispetto delle minoranze e la competitività. Nella gestione è necessario tenere conto di molti più elementi che in passato, far quadrare il cerchio diventa sempre più difficile e quindi le regole di funzionamento devono essere chiare e soprattutto devono essere rispettate.

Lei ritiene che non sia sempre così?

Un po’ di rigore in più non guasterebbe. Le leggi ci sono già. Basta leggere il Codice Civile. Se poi viene interpretato, diciamo, in maniera blanda, è un altro discorso. Il sistema è costruito con un insieme di sanzioni e di controlli. E di responsabilità. Ma poi bisogna farlo funzionare nel day by day. Per farlo ci vuol coraggio. Da fuori non si capisce che dentro questi organi non è facile avere un atteggiamento rigoroso. Si finisce per diventare troppo tolleranti. Servirebbe anche una cultura della vergogna. Se qualcuno arrossisse più spesso, si renderebbe conto di aver fatto qualcosa di sbagliato. Purtroppo non è frequente.

I consiglieri indipendenti possono essere un correttivo utile?

Insieme all’indipendenza, è determinante la professionalità. Non si è lavorato ancora abbastanza per la definizione dei profili professionali e delle competenze. Certo i consiglieri devono essere anche indipendenti, per quanto possibile, ma il buon risultato arriva dal mix con la competenza. E non è certo facile nella quotidianità

Perché?

Ricordo solo che nel 2007 Guido Rossi parlava di financial gigolò, riferendosi ai consiglieri indipendenti. E sempre Rossi già tempo fa segnalava il vero problema nella governance di una grande azienda: il conflitto epidemico, lo ha chiamato lui. Il grande baco che mina alla radice il corretto funzionamento del sistema capitalistico è il conflitto di interessi. Era e resta il punto.

E qual è il punto, invece, in Telecom Italia?

Telecom è assoggettata al controllo di qualcuno o no? Se sì, la conseguenza non è solo la riduzione di autonomia e libertà per la società ma anche l’assunzione di alcune responsabilità da parte di chi detiene il controllo. Se no, si deve accettare l’idea che sia una public company e che la sua maggioranza sia variabile. E in linea con questo debbono essere costruiti i meccanismi statutari per far funzionare il sistema. La nozione del controllo non è una cosa astrusa. Basta leggere le norme e applicarle.

GLI ALTRI CONTRIBUTI AL DIBATTITO

Francesco Maria Aleandri

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Giulio Sapelli

Ferdinando Pennarola

Luca Arnaboldi

Maurizio Dallocchio

Umberto Bertelè

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