La tassa per la concessione governativa sugli abbonamenti dei telefonini, che genera ogni anno per le casse dello Stato circa 800 milioni, è dovuta. Lo ha affermato il Procuratore generale della Corte di Cassazione durante la discussione del ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate contro le decisioni di sette commissioni tributarie venete che avevano accolto la tesi dell’illegittimità della tassa sostenuta da alcuni Comuni tra cui Padova. Un tema in cui si è inserito a fine gennaio il decreto legge sul rientro di capitali che conteneva anche una norma interpretativa sulla legittimità della tassa: il Dl equiparava cioè le apparecchiature terminali per i servizi radiomobili terrestri di comunicazione alle stazioni radioelettriche. Per cui l’imposizione non è in discussione. “La questione di massima importanza – ha spiegato il Procuratore che si è pronunciato dunque per l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia – va risolta con la debenza del tributo sui telefonini già alla luce del quadro normativo esistente. Oggi per effetto del decreto interpretativo, ed è pacifica la valenza retroattiva, ogni questione va risolta”. La tassa sui telefonini è pari a 5,16 euro al mese sugli abbonamenti delle persone fisiche e 12,91 euro su quelli delle imprese.
Proprio sul ruolo giocato dalla norma interpretativa si è soffermata la difesa dei Comuni rappresentati dall’avvocato dell’Anci, Amerigo Penta: “Se l’articolo 160 del Codice delle comunicazioni elettroniche fosse stato autosufficiente per il pagamento della tassa sulla base della disciplina generale delle tasse di concessione, non ci sarebbe stato bisogno della norma interpretativa per colmare il vuoto. In più, essendo quella in questione una tassa e non un’imposta, manca l’attività amministrativa che possa giustificarla. Il legislatore cerca di estendere la disciplina del telefonino a quella prevista per gli impianti radioelettrici, ma la norma interpretativa non basta. Per raggiungere questo scopo, il legislatore avrebbe dovuto abrogare l’attuale corpo normativo che prevede per i cellulari solo l’apposizione della certificazione di conformità CE da parte del produttore, introducendo una differente disciplina normativa che (ri)disponga un’attività amministrativa di controllo da parte dello Stato”.
L’Agenzia delle Entrate ritiene, invece, che il presupposto della tassa sia rappresentato dal contratto di abbonamento, ancora oggi previsto dall’articolo 3, comma 2 del Dm 33/1990. Il contratto sottoscritto dalla società, pur non essendo un provvedimento amministrativo, sostituirebbe ad ogni effetto la licenza di stazione radio richiamata dall’articolo 21 della tariffa allegata al Dpr 641/1972.
Secondo quanto ha ricordato anche l’Avvocatura dello Stato in rappresentanza dell’Agenzia delle Entrate, la tassa governativa varrebbe intorno “ai tre miliardi di euro nell’ultimo triennio” mentre il legale dell’Anci ha precisato che, anche nel caso in cui la Cassazione ritenesse illegittima la tassa, lo Stato non dovrebbe tirar fuori circa tre miliardi di euro, ma solo alcuni milioni che è il valore della cause in atto: “Quindi – aggiunge Penta – a quel punto il legislatore potrebbe emendare il vuoto legislativo che c’è qualificando la tassa in maniera diversa”, cioe’ ad esempio come un’imposta.
Dopo una prima sentenza del 2012 favorevole alla tesi dell’Agenzia, la Cassazione con l’ordinanza 12056/2013 ha ritenuto di rimettere la questione all’esame delle sezioni unite, anche in considerazione del gran numero delle cause ancora pendenti in Cassazione e del numero di Comuni coinvolti che, col supporto di varie Anci regionali, come quella dell’Emilia Romagna e del Veneto, hanno presentato diversi ricorsi collettivi. Ora, dopo la pronuncia del Pg, si attende la decisione della Corte per cui ci vorranno svariate settimane.