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Jonathan Ortmans: “Startupper italiani globalizzatevi”

Il fondatore della Kaufmann Foundation spiega pregi e difetti del modello tricolore: “Si pensa troppo in chiave Italy first, ma la legislazione è una best practice mondiale. Il Paese è sulla buona strada: ora il Governo cerchi di capire quale ruolo giocare”

Pubblicato il 06 Mar 2014

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Gli startupper italiani pensano troppo “Italy first” e sono poco globalizzati, eppure l’ecosistema ha indubbi vantaggi: la collaborazione pubblico-privato, una legislazione ad hoc per le neo-imprese (tra le prime al mondo) e un fiorire di spazi ed acceleratori dedicati alle aziende “in fasce”. È la fotografia scattata da Jonathan Ortmans, uno dei massimi esperti di strategia imprenditoriale a livello globale. Da consigliere della Kauffman Foundation, prestigiosa istituzione statunitense, Ortmans si interfaccia con politici e imprenditori di tutto il mondo e soprattutto gestisce la Global Entrepreneurship Week, evento annuale organizzato in diversi Paesi e pensato per aiutare gli under 30 di 115 Paesi ad esplorare le proprie potenzialità di business. Perciò sui nostri aspiranti imprenditori ha le idee chiare: “Uno come Steve Jobs difficilmente poteva nascere a Roma”.
Perché Ortmans?
In realtà non è solo un problema italiano. Agli eventi organizzati dalla Kauffman Foundation nel mondo invitiamo noti personaggi dell’hi-tech e purtroppo, ogni volta, la maggior parte americani. Uno dei motivi è anche perché negli Stati Uniti le famiglie non sono solite dare denaro ai figli che hanno passato l’adolescenza: il risultato è un minore trasferimento di ricchezza da una generazione all’altra e un re-starting continuo. Altra limitazione è che gli startupper italiani sono poco globalizzati. In molti Stati, penso ad esempio a Giappone o a Israele, i giovani sono incoraggiati a diventare cittadini del mondo, a imparare bene l’inglese fin da piccoli. Gli italiani, almeno alcuni di loro, hanno resistenza a pensare globale. Ma forse è perché la vostra l’Italia è troppo bella: chi ha voglia di lasciarla?
Più lati positivi o negativi nell’ecosistema italiano delle startup?
Negli ultimi due anni, in cui ho avuto modo di conoscere la vostra realtà economica, ho individuato più vantaggi che svantaggi. Innanzitutto l’Italia ha un ecosistema che prevede una collaborazione paritaria tra attori pubblici, quali ministeri ed alcune istituzioni educative, e soggetti privati. E mi sembra ci sia un sincero livello di collaborazione. Inoltre è stata tra i primi Paesi del mondo a mettere in pratica una legislazione specificamente incentrata su aziende innovative guidate da giovani. Questo è altamente insolito, perché i governi di molti Paesi tendono ancora a tracciare una netta linea di divisione tra grandi aziende e pmi. E non hanno capito quanto possano essere importanti per la crescita economica e per la creazione di posti di lavoro le company nate da meno di cinque anni. Ulteriore elemento positivo è il desiderio degli imprenditori di sperimentare nuove modalità di accelerazione, nuovi luoghi, spazi aperti dove adottare e mettere in pratica le best practice internazionali. Tutto questo avviene in un Paese noto per la capacità di creare ed apprezzare la pura bellezza delle cose. Io penso che l’Italia abbia un grande potenziale in questo campo.
Non è un problema la scarsità di venture capital?
Su questo ho un’opinione che può suonare contro-corrente. A mio parere non è vitale possedere una venture capital industry. Se guardiamo agli Usa meno del 16% delle aziende ad elevato tasso di crescita ha ottenuto venture capital dall’esterno. D’altra parte, man mano che in un Paese cresce la comunità delle startup, il capitale è destinato a circolare. In Italia, ad esempio, c’è una percentuale molto alta di milionari, ci sono persone che hanno ereditato il business di famiglia e quindi un notevole numero di famiglie che ha potenziale venture capital da mettere a disposizione. Se diventa “normale” supportare la crescita di aziende appena nate, probabilmente queste famiglie diventeranno sempre più venture capitalists e si sentiranno a loro agio nell’investire, così come è stato fatto negli Usa.
E la burocrazia? Da noi è un ostacolo: come arginarla?
La burocrazia è sempre negativa per startup e imprese in qualsiasi parte del mondo. È difficile confrontarsi con istituzioni che erogano denaro pubblico e arrivare a soluzioni in tempi rapidi. Un altro problema che hanno molti governi è se aprire le porte o meno all’immigrazione qualificata in grado di incentivare lo sviluppo economico di un Paese. Negli Stati Uniti è stata una grande battaglia e alla fine il presidente Barack Obama è riuscito a far passare il Jobs Act. Ma è stato lungo e faticoso. Persino negli Stati Uniti, dove si pensa che il governo sia più aperto all’imprenditorialità, è ancora incredibilmente difficile fare certe cose, perché è sempre difficoltoso trattare con qualsiasi governo. Quello che conta concretamente è stabilire una relazione sana tra persone, governo e comunità delle startup. Gli startupper non devono lamentarsi troppo e lo Stato deve capire quale ruolo giocare per favorirli. Sinceramente penso che l’Italia sia sulla giusta strada.

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