I siti pirata potrebbero nel giro di pochi giorni, a volte anche di poche ore, risorgere dalle proprie ceneri e tornare a offrire in streaming o in download contenuti protetti dal diritto d’autore. E’ una dinamica molto conosciuta tra chi è abituato a servirsi di questi portali, e che impegna di fatto le forze dell’ordine in una sorta di “guardie e ladri” che, se da una parte pone qualche ostacolo e infligge qualche fastidio a chi gestisce le attività illegali, dall’altra non colpisce a fondo chi organizza l’attività e ne trae guadagno.
Il caso è tornato all’evidenza delle cronache dopo che la scorsa settimana la Guardia di Finanza, su ordine del giudice per le indagini preliminari di Roma e su richiesta della procura della Capitale, aveva messo sotto sequestro 46 tra nomi di dominio e portali internet torrent e streaming per la violazione dell’articolo 171ter, comma 2 della legge 633 1941 che regola il diritto d’autore. Una competenza che dal 31 marzo rientrerà anche nei compiti dell’Agcom, con l’entrata in vigore del regolamento sul copyright approvato a metà dicembre.
Ma come è possibile che si verifichi questa situazione? “Il problema è innanzitutto di scarsa conoscenza di internet e delle logiche che governano la rete – spiega Fulvio Sarzana, avvocato specializzato in questo settore – dal momento che non esiste uno standard tecnico e giuridico per portare a termine questi provvedimenti, anche se ci troviamo di fronte a veri e propri sequestri penali. Per gli esperti del settore la maggior parte di questi blocchi di rivelano aggirabili con facilità, ad esempio cambiando server. Ben diverso sarebbe agire secondo il principio del follow the money”.
Follow the money, cioè seguire i flussi di denaro. Individuare dove vanno a finire le “donazioni” che gli utenti versano ai gestori dei siti in cambio della possibilità di scaricare o vedere i contenuti messi a disposizione sul portale. Una strategia, ad esempio, privilegiata rispetto all’oscuramento dei siti in alti Paesi impegnati contro la pirateria, come gli Stati Uniti, dove non viene messo in pratica il sequestro degli indirizzi Ip, che tra l’altro rischia di penalizzare anche siti legali che però risiedono insieme a quelli pirata sullo stesso numero Ip, ma si va fisicamente a individuare i responsabili dell’attività illecita, che spesso su queste violazioni del copyright costruiscono fortune personali. L’ultimo esempio in questo campo è l’arresto in Nuova Zelanda di Kim DotCom (nella foto), che su Megaupload aveva fondato il suo impero.