E adesso siamo già nel dopo-webtax. L’abrogazione della legge, lo scorso 6 marzo, ha messo fine alla tragicommedia che aveva raggiunto il suo climax tra Natale e Capodanno, ma non ha di certo eliminato le cause del suo svolgimento e ha lasciato un velo di incertezza sul mercato digitale. Il problema resta fermo lì: tutte le grandi compagnie legate al web pagano pochissime tasse agli Stati occidentali, Italia compresa, perché riescono ad essere cittadini di nessun Paese. Ma imporre una partita Iva era una risposta minuscola e incompatibile con le norme comunitarie. Bene, quindi, ha fatto il premier Matteo Renzi a rinviare ogni decisione a un ambito europeo, anche se non è ancora chiaro cosa significhi e che effetto avrà l’inserimento del controllo sulle multinazionali nella delega fiscale, approvata ma non esecutiva fino a quando non ci saranno i decreti governativi.
Dobbiamo aspettarcene uno sull’apportionment, termine con cui si indica l’obbligo per le multinazionali con sede fiscale all’estero di pagare le tasse in Italia per la parte di ricavi qui prodotta? Come saranno stimati? Nessuno in questo momento sente il bisogno di un altro provvedimento spaventapasseri e, soprattutto, sconnesso dalle questioni di fiscalità internazionale, come sottolineano da punti di vista diversi l’avvocato Antonio Tomassini, il presidente di Italia Startup Riccardo Donadon e Massimiliano Trovato fellow dell’Istituto Bruno Leoni nelle interviste pubblicate (sul cartaceo del 17 marzo e nei prossimi giorni sul sito).
Il comma 33 della legge 147 resterà a futura memoria come una delle più paradossali vicende legislative del nostro Parlamento. Un vero pasticciaccio sortito dalla tenace iniziativa politica di Francesco Boccia, esponente del Pd, a cui hanno dovuto mettere una pezza due governi guidati da esponenti del Pd. Prima si è tentato di rinviarne l’entrata in vigore, sotto la presidenza Letta. Poi si è riusciti a cancellarla, con uno dei primi atti del nuovo governo Renzi. Nel frattempo si è riusciti non tanto a spaventare i grandi investitori internazionali o le multinazionali digitali ma sicuramente a far capire loro che non abbiamo ancora le idee chiare su come funzionano i nuovi business e sulle regole che richiedono.
L’elusione fiscale è un tema antico e non certo limitato ai mercati digitali. I “paradisi” a tassazione ridotta non sono stati creati né per Apple né per Google. E né sono frequentati solo da web company. Stabilire l’imponibile fiscale delle multinazionali non è mai stato esercizio facile. Chi si intende di queste cose ricorda il caso di una company pesante come Bosch a cui qualche anno fa furono contestati 4 miliardi di euro di “stabile organizzazione” in Italia. L’azienda sosteneva che la branch italiana era solo un ufficio di consulenza remunerata con una commissione, l’Agenzia delle Entrate riteneva invece di dover riscuotere su tutto il fatturato realizzato. Nel 2012 fu raggiunto un accordo per circa 300milioni di euro. Ma a fine febbraio la Cassazione ha sentenziato che Bosch non aveva evaso le tasse perché le aveva già pagate in Germania. Non riavrà indietro i suoi soldi, ma un principio importante è stato stabilito: grande è la confusione sotto il cielo fiscale.
Figuriamoci poi quando il business diventa immateriale, come nel caso delle multinazionali che lavorano con Internet. E, anche in questo caso, la questione va ben oltre Google&Co. In assenza di un Paese che si chiama web non è facile definire la giurisdizione e quindi le regole a cui una società deve adeguarsi. Normale che chi può ne approfitti. Sempre in Cassazione l’ha spuntata una società maltese di gioco online che ha milioni di clienti in Italia ma gestisce tutto da Malta, dove tiene il server. Non c’è esterovestizione, tutto nel rispetto del modello Ocse.
Come ha scritto Luca De Biase, giornalista del Sole 24 Ore e componente della task force digitale di Francesco Caio: “Se si vedrà un’azione efficace su banche, furbetti delle sponsorizzazioni, sui tanti ricchi che spostano le residenze in posti meno tassati anche se le loro attività restano in posti molto tassati, ci sarà legittimità anche per le azioni contro le aziende internettiane prese di mira dalla web tax”. Insomma, se non si riescono ad avere regole efficaci per i business materiali come si può pensare di afferrare il vento digitale? Se gli Usa non riescono ad “acchiappare” i profitti di Apple che ha preso casa in Irlanda e non ci riesce neanche l’Australia che sta contestando alla compagnia di Cupertino 9 miliardi di tasse, qualcuno crede che si possa arginare l’Oceano con le dighe improvvisate da qualche deputato intraprendente? Nel dopo web tax servirà molta più lucidità. E una difficile armonia internazionale.