“La fatturazione elettronica? Si tratta di un intervento forse necessario ma certamente non strutturale”. Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente dell’Università Bocconi di Milano, è scettico sull’efficacia dell’iniziativa e spiega al Corriere delle Comunicazioni cosa non va.
Professore, cos’è non la convince del progetto?
Il fatto che non si sia deciso di intervenire a valle del processo di acquisto dei beni e servizi da parte della pubblica amministrazione, digitalizzando le procedure di procurement e “forzando” fornitori ed enti pubblici ad avere rapporti esclusivamente per via teematica. Se così fosse stato, la fatturazione elettronica non avrebbe avuto nemmeno senso di esistere perché si sarebbe dato vita a un processo che è “nativo” digitale e che avrebbe cambiato alla radice il modo di operare del settore pubblico. Sa qual è la metafora per spiegare tutto questo?
Quale?
È come se si volesse iniziare a costruire una casa partendo dal tetto. Ma questo è un po’ il vizio con cui ci si approccia all’innovazione in Italia.
Si spieghi.
La fattura elettronica non cambia né il flusso e né la logica delle attività e, quindi, non sfrutta il potenziale di efficienza introdotto dall’Ict. L’assunto con cui ci si muove è che il digitale è un nuovo “formato”, non un nuovo modello di processi. Ci si limita dunque a prescrivere una versione digitale delle stesse attività già oggi previste. Detto questo va bene rendere la fattura digitale obbligatoria, ma si abbia il coraggio di dire che si sta facendo “retro-innovazione” per colmare un gap, non innovazione nel vero senso della parola.
Addirittura retro-innovazione?
Certamente, soprattutto se si pensa che la fattura elettronica viene utilizzata nei rapporti tra imprese e fornitori delle stesse da 10 anni e se si ricorda che il progetto Consip per il procurement elettronico risale ormai a 15 anni fa. E poi bisogna avere l’onestà di evidenziare che la digitalizzazione della fattura nulla dice sulla qualità sei servizi offerti alla pubblica amministrazione. Che è il vero parametro per giudicare gli effetti dell’Ict sui processi.
In che senso?
Nel senso che non modifica il modo di “pensare” gli acquisti da parte delle amministrazioni che continueranno a comprare “fattori” produttivi e non risultati come invece sarebbe necessario. Mi spiego: un fornitore si limita a presentare la fattura a fine mese o fine contratto. Ma quella fattura nulla dice sulla qualità del servizio erogato – o più semplicemente se la prestazione è quella che serve all’ente – quindi sul “diritto” del fornitore di essere pagato. Molto più efficace della fattura elettronica sarebbe, invece, un billing quotidiano o settimanale che rendiconti la delivery del servizio. Così facendo si indurrebbe la PA a intervenire direttamente sul fornitore se ci sono scostamenti “qualitativi” da quanto previsto del contratto.
Però la fatturazione elettronica consentirebbe al governo di rafforzare le capacità di controllo di gestione dello Stato e di mettere in campo strategie di spending review basate su dati certi e trasparenti. Non crede che sia così?
Guardi, anche in questo caso bisogna cambiare il modo di pensare e “agire” la spending review. La vera spending review non è quella che tagli i costi della pubblica amministrazione in maniera ragionieristica, ma quella che cambia le modalità con cui l’amministrazione spende le proprie risorse. Se non si inizia a rivedere il concetto di “revisione della spesa” in questa direzione, il rischio è pur tagliando le inefficienze insite nella macchina amministrativa da una parte, le stesse poi transitino da altre parti. Per evitare spending review senza effetti l’unica leva è il procurement digitale che, così, diventa “strategic procurement”.
E-FATTURAZIONE
Fatturazione elettronica, Maffè: “E’ retroinnovazione che non cambia la PA”
Il docente della Bocconi: “Bisognava digitalizzare tutto il procurement. La e-fattura non dice nulla sulla qualità del servizio erogato e quindi sul diritto del fornitore ad essere pagato”
Pubblicato il 22 Apr 2014
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