È una strada ancora tutta in salita quella per digitalizzare la
Pubblica amministrazione. Il punto della situazione è
nell’indagine
conoscitiva sull’informatizzazione delle pubbliche
amministrazioni promossa dalla Commissione Affari
costituzionali della Camera, il cui documento conclusivo evidenzia
le criticità e gli ostacoli sul cammino digitale.
Dopo aver ascoltato in audizione i rappresentanti degli enti che si
occupano di PA digitale (Cnipa, Consip e Sogei) e quelli degli enti
locali fra cui l’Anci (Associazione nazionale dei Comuni
italiani) e aver ascoltato il parere di Confindustria Servizi
Innovativi e Tecnologici nonché di alcune grandi aziende impegnate
nella sfida dell’informatizzazione, come ad esempio Poste
Italiane, la Commissione ha evidenziato tre macro-debolezze: scarsa
cultura digitale, carenza normativa e mancanza di un centro di un
centro di coordinamento unitario. Solo sciogliendo questi nodi –
sostiene la Commissione – ci si potrà dotare di
un’amministrazione pubblica di qualità “che consenta al
processo di informatizzazione di tradursi in formidabile spinta per
lo sviluppo del Paese”. L’ostacolo numero uno è di tipo
culturale.
La PA non ha sufficientemente messo in atto il processo di
adattamento della “mentalità” – fatto di riorganizzazione dei
processi e del lavoro – di pari passo con l’evoluzione
tecnologica. E considerato che la tecnologia corre veloce va da sè
che il digital divide culturale si fa sempre più profondo. Come
fare? La Commissione suggerisce il ricorso a strumenti normativi.
“Nel corso delle audizioni è emersa la carenza di una norma che
traduca in concreto i principi posti a livello generale”.
Necessità di cui si è fatto carico il ministro della PA e
Innovazione Renato Brunetta: nel 2010, ha annunciato a ottobre
scorso, sarà aggiornato il Codice dell’amministrazione digitale.
Aziende, enti ed esperti ascoltati alla Camera hanno sottolineato
che la tecnologia di per sé altro non è che “un mero fattore
abilitante”: non sono gli strumenti tecnologici a fare la
differenza se poi mancano rinnovamento culturale, programmazione
e formazione delle competenze. Questo sul piano qualitativo.
Su quello quantitativo, secondo gli intervistati le attività
destinate alla gestione e alla manutenzione dei sistemi informativi
pensano troppo a scapito di quelle necessarie a modernizzare
processi e organizzazione. “Occorre spendere di più e meglio per
allargare l’offerta dei servizi in rete a vantaggio di
cittadini e imprese”, ammonisce la Commissione. Obiettivo che il
piano e-Gov 2012 (e la versione ridotta i2010) si propone di
raggiungere, in settori quick win, quali scuola, sanità e
giustizia. Nonostante gli sforzi del governo, a preoccupare è
anche la diffusione dell’hi-tech pubblico a “macchia di
leopardo”. Ci sono “differenze importanti tra le regioni”,
puntualizza la Commissione: alcune sono decisamente
all’avanguardia, altre sono ancora legate a modalità vecchio
stampo. Una soluzione – suggerisce la Commissione – potrebbe essere
rappresentata dalla creazione di una cabina di regia che faccia da
tramite tra Stato e Regioni evitando sovrapposizioni e duplicazioni
di competenze.
L'opposizione.
Intervista a Linda Lanzillotta (Api):
"Troppi enti in campo. Uno spreco di
denaro"
«Una novità che rimette l’innovazione al centro del dibattito
politico». Linda Lanzillotta definisce così
l’indagine conoscitiva da lei stessa promossa “che ha avuto un
consenso bipartisan ed è servita a convogliare l’attenzione nei
confronti dell’innovazione da parte della politica”.
Il limite della PA italiana è dunque principalmente di
tipo culturale.
È un limite culturale che si riflette sul sistema economico tutto.
L’innovazione è un driver fondamentale soprattutto in un momento
delicato come quello che stiamo vivendo; un momento in cui si
stanno elaborando strategie per uscire dalla crisi. In questo senso
l’indagine parla chiaro: rischiamo di scegliere exit strategies
che non prevedano massicci investimenti in innovazione. Stando al
rapporto Onu l’Italia è al 27° posto nella classifica del Paesi
più “tecnologici” nonostante sia la settima potenza mondiale:
un controsenso dannoso per il Paese.
Quali sono i rischi concreti per il Paese?
Sicuramente il ritardo che si manifesta, da una parte, nel digital
divide infrastrutturale e culturale, e dall’altra nella mancanza
di un piano strategico per le reti di nuova generazione. Si tratta
di questioni che impattano direttamente sull’efficienza della PA
perchè è impensabile “iniettare” innovazione senza un
efficace supporto di rete o senza che i cittadini conoscano il
Web.
Cosa manca, invece, nel rapporto PA-aziende?
Una cabina di regia a cui facciano capo le politiche per
l’innovazione. Ad oggi ci sono ancora molteplici enti che si
occupano del tema in varie forme, da DigitPA fino al Formez,
passando per Consip, Sogei e Poligrafico: enti costosi che non
fanno altro che duplicare le attività, rendendo difficile alle
aziende trovare l’interlocutore più adatto e frenando i processi
di innovazione.
La soluzione?
Un unica porta di accesso ai servizi che operi secondo standard
comuni – e quindi metta in pratica l’interoperabilità – e una
qualificazione della domanda pubblica. La mancanza di una domanda
qualificata “costringe” ad acquistare i prodotti dalle grandi
multinazionali, tagliando fuori la filiera delle Pmi innovative
italiane. Se la PA si facesse partner strategico non solo si
troverebbero soluzioni ad hoc, che non siano mera applicazione
software e hardware, ma si rilancerebbe anche il made in Italy. Il
tutto andrebbe poi anche a favore del cittadino, che avrebbe a che
fare con una amministrazione pubblica che “fa” cultura
digitale e la diffonde.
Brunetta ha messo in campo servizi come la Pec, la cartella
clinica elettronica…
Il problema del governo è la tendenza a fare l’innovazione per
spot: quella nella sanità “è” la cartella digitale, le
modalità di accesso alla PA sono tutte racchiuse nella posta
elettronica certificata. Servizi certamente utili ma che non
modificano alla radice il modo di lavorare. Per tornare a quello
che dicevamo prima, non trasformano i processi e, quindi, la
cultura.
La maggioranza.
Intervista a Raffaele Volpi (Lega Nord):
"Le multinazionali dell'IT facciano la loro
parte"
«C’è una responsabilità pubblica nella scarsa diffusione di
una cultura digitale ma c’è anche – e questo si tende a
dimenticarlo – una responsabilità delle aziende IT, soprattutto
multinazionali». Raffaele Volpi, deputato della Lega
Nord, che insieme alla Lanzillotta ha seguito
l’indagine, ribalta la convinzione diffusa che gran parte del
ritardo sull’innovazione dipenda esclusivamente da ostacoli
interni alla PA
Onorevole Volpi la sua è un’affermazione quasi
“rivoluzionaria”. Quali sarebbero le responsabilità dei
privati?
Io credo che ci sia una tendenza a “giocare” troppo sul fatto
che l’amministrazione italiana sia in ritardo sull’innovazione.
Certo, è vero che la cultura digitale pubblica scarseggia e che
l’innovazione di processo è ostacolata da questo, ma credo che
sia un problema che verrà meno nel momento in cui ci sarà il turn
over negli uffici; quando, cioè, arriveranno giovani impiegati per
i quali il Web non ha segreti. Mi sembra puerile chiedere a un
dipendente pubblico con 40 anni di servizio alle spalle di cambiare
il suo modo di lavorare. Qui la questione è un’altra…
Quale?
L’innovazione di processo, che anche l’indagine riconosce come
fondamentale, è ostacolata da una frammentazione dell’offerta
che costringe le PA ad usare un prodotto solo perché è l’unico
che l’azienda presenta. Una situazione che riguarda in particolar
modo i piccoli enti locali che, spesso, non hanno il know-how
tecnologico o manageriale per capire cosa serva realmente ai
cittadini.
E allora?
Come ho detto più volte in Commissione le aziende hi-tech hanno la
responsabilità sociale di creare le condizioni perché il mercato
sappia rispondere alle necessità degli enti pubblici. Come?
Diventando sponsor dell’IT sul territorio e sviluppando soluzioni
in linea con la domanda e con parametri di interoperabilità e
riuso: i prodotti devono mettere i sistemi delle diverse PA nelle
condizioni di scambiarsi i dati e assicurare l’adattabilità da
ente a ente.
Le aziende chiedono più chiarezza nelle governance
dell’IT pubblico, auspicando la creazione di una cabina di
regia…
Una richiesta condivisibile. La cabina di regia serve ai privati
per avere un interlocutore ben identificabile e agli enti pubblici
che avrebbero a disposizione una sorta di “cassa di risonanza”
dove far conoscere e diffondere le best practice. In questo senso
credo che la cultura digitale debba essere frutto di uno sforzo
condiviso. Ma – ripeto – le aziende devono accompagnare la PA nel
cammino digitale, anche spiegando cosa c’è che va o non va
nelle politiche pubbliche per l’innovazione.
In questo quadro cosa cambierebbe per i
cittadini?
I cittadini usufruirebbero di servizi che nascono, sì, dalle
singole PA ma che, allo stesso tempo, hanno una vocazione
“universalistica” perchè supportati da un impegno culturale
condiviso che mette insieme “l’umanismo” del settore pubblico
e gli skills tecnologici dei privati.