VENTURE CAPITAL

Anna Gervasoni, Aifi: “Investimenti in crescita nelle startup”

La direttrice dell’Associazione italiana di private equity e venture capital: “Gli investor guardano soprattutto alla qualità dell’innovazione”

Pubblicato il 28 Apr 2014

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Guardare al futuro, rinnovare il sistema industriale del nostro Paese e puntare su digitale e nuove tecnologie. Sì, ma quanti sono i capitali a disposizione dell’innovazione in Italia? Lo abbiamo chiesto ad Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi (Associazione italiana del private equity e venture capital), partendo da un dato: i 158 investimenti in startup fatti durante il 2013, per un volume investito complessivo di 81 milioni di euro. Non è poco per un ecosistema come quello italiano che ha bisogno disperato di risorse per crescere? “Il fatto che l’anno scorso il volume degli investimenti di early stage (che comprende i seed, relativi alla primissima fase di vita dell’impresa, e le operazioni a un livello più avanzato denominate startup, ndr) sia stato un po’ più basso che in passato dipende soprattutto dal taglio medio delle operazioni, che è legato anche a fattori abbastanza casuali”, afferma Gervasoni. “L’investimento, in media, è di circa un milione di euro ma dipende molto dal settore di riferimento e dal momento in cui viene fatto: i cosiddetti seed, fatti nella fase iniziale, sono ovviamente più piccoli”.

Rispetto al 2012, quando i capitali investiti in startup ammontarono a 135 milioni di euro, il denaro a disposizione delle nuove imprese è diminuito del 39,5%. Ma i motivi per essere ottimisti e per pensare che la contrazione dei volumi sia stata anche fortuita ci sono. A cominciare da una tendenza riscontrata anche nel 2013: “Abbiamo osservato – nota il dg di Aifi – come alcune startup, soprattutto quelle attive nel settore Ict, che in passato avevano ricevuto investimenti iniziali piccoli, abbiano ottenuto negli anni successivi rifinanziamenti più grandi”.

Un segnale da non sottovalutare è poi il fatto che il numero delle operazioni a favore delle neoimprese sia aumentato: se nel 2012 erano 136, nel 2013 sono state appunto 158, il 16,2% in più. “Il numero di investimenti in venture capital è cresciuto parecchio, a dimostrazione che c’è un interesse crescente per le startup – sottolinea Gervasoni -. Certo è che, investendo in circa 150 nuove imprese all’anno, non possiamo alimentare tutto il sistema. Però andiamo a dare capitali a startup molto innovative che hanno bisogno di una spinta in più. Si tratta di quelle stesse imprese che con il passare degli anni diventano molto grandi e finiscono in borsa oppure vengono rilevate da altre aziende”.

Pochi o tanti che siano i capitali per le startup, si registra un maggiore dinamismo di tutto il mercato italiano del capitale di rischio, dal momento che gli investimenti complessivi nel private equity e nel venture capital nel 2013 sono cresciuti e hanno raggiunto quasi quota 3,5 miliardi. Sono aumentati anche i disinvestimenti: 1,9 miliardi di euro, il 23% in più rispetto al 2012.
Il risultato è da leggere come una buona notizia anche per le nuove imprese, perché quante più exit ci sono tante più risorse si liberano per essere re-investite in nuovi progetti. “I casi di successo come Eos (la startup biotech ceduta all’americana Clovis per più di 400 milioni di dollari, ndr) dimostrano che le operazioni si possono fare, e bene”, commenta il direttore generale. “Il venture capital ha bisogno di tempi abbastanza lunghi, però finalmente stanno arrivando delle exit di grandi dimensioni che da un lato incoraggiano gli operatori a investire di più e dall’altro stimolano gli imprenditori a lanciarsi in nuove iniziative”.

Secondo Anna Gervasoni, inoltre, il denaro che sarà investito non guarderà tanto al settore produttivo quanto alla qualità dell’innovazione e al ritmo potenziale di crescita: “Gli investitori scelgono imprese che vogliono crescere, dando i propri soldi a quelle aziende che sanno far evolvere i propri processi produttivi e sono brave a innovare nella logistica, nella comunicazione e nel modo di aprirsi a nuovi canali internazionali. Inoltre, alcuni investimenti molto interessanti non hanno nulla a che vedere con il made in Italy classico ma sono diretti ad aziende che hanno lo spirito del made in Italy: cioè non solo scarpe e vestiti, che sono di certo importantissimi, ma anche tecnologie innovative, life science e propensione tutta italiana all’eccellenza”.

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