La Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza 13 maggio 2014, causa C-131/12, ha stabilito la responsabilità del motore di ricerca per il trattamento di indicizzazione dei dati personali in caso di violazione del diritto all’oblio. Diritto all’oblio in questo contesto significa diritto all’autodeterminazione informativa del Soggetto (persona fisica o persona giuridica) o più specificatamente diritto alla conservazione dell’attualità della propria identità digitale.
I Giudici del Lussemburgo, chiamati a sciogliere un nodo interpretativo sulla disciplina Data Protection UE (Direttiva 95/46/CE – Articoli 2, 4, 12 e 14), stigmatizzano la responsabilità del motore di ricerca in caso di violazione del diritto alla conservazione dell’attualità dell’identità digitale (diritto all’oblio) causata dall’indicizzazione di link riferentesi a pagine web di terzi contenenti notizie non più attinenti alla vita attuale del soggetto leso.
Si registra dunque una rivoluzione nel sistema giuridico di tutela del diritto alla conservazione dell’attualità dell’identità digitale del soggetto o anche detto diritto all’oblio.
La prassi Ante Cgue 13.05.14 contemplava la difesa delle proprie ragioni di fronte al gestore del sito web source (per esempio la testata telematica) assumendosi il motore di ricerca non responsabile ai sensi della disciplina sugli intermediari digitali quando siano meri hoster neutro.
Lo scenario Post Cgue 13.05.14 impone che la parte lesa si rivolga direttamente al motore di ricerca indipendentemente dal ruolo assunto nella vicenda dal gestore del sito web source.
L’epilogo interpretativo della pronunzia in parola ci conduce in uno scenario del tutto nuovo in cui il motore di ricerca, lungi dall’essere aggravato dalla nuova responsabilità, si erge sulla Rete ancora più potente.
Significa dire: “cari editori web, scordatevi gli eventuali proventi economici derivanti dalla promozione della buona reputazione a pagamento delle aziende o delle persone perché la partita miliardaria della web reputation è adesso in mano ai motori di ricerca”.
Siamo nel cuore della tutela della web reputation, tema di straordinaria importanza nel mondo digitale per le proprie ricadute sia in termini relazionali sia in termini economici. Pensiamo a un’azienda che veda il proprio nome legato a vicende giudiziarie ormai superate; pensiamo a una persona la cui identità digitale venga tracciata esclusivamente da eventi del passato inadeguati a rispecchiarne l’immagine attuale.
Prima di questa rivoluzionaria pronunzia, il soggetto assuntosi leso si rivolgeva al sito cosiddetto web source ovvero al gestore dello spazio on line da cui originava l’informazione superata o non più adeguata per invocare la tutela delle proprie ragioni. Nell’ipotesi di testata telematica per esempio l’interessato poteva difendersi legittimamente, senza contrastare il diritto all’informazione, invocando presso l’editore web il No-Index o deindicizzazione del contenuto pregiudizievole dagli elenchi dei motori di ricerca.
Tale operazione avveniva a cura della testata telematica che procedeva a depennare la notizia “incriminata” dalla ricerca dei file robots. Così operando si raggiungeva un buon compromesso nel balance dei diritti in gioco (diritto all’attualità della propria identità digitale e diritto all’informazione/archiviazione storica) perché veniva salvaguardato sia il diritto della persona sia il diritto dell’editore.
In questo scenario la responsabilità per sinistro Data Protection si allocava quasi interamente nella sfera dell’editore web mentre il motore di ricerca rimaneva intonso, escluso dall’imputazione di qualsiasi responsabilità salvo la casistica del servizio Google Suggest Autocomplete e poche altre.
La Corte di Giustizia UE 13.05.2014 rovescia questa logica aprendo uno scenario del tutto nuovo. In materia di violazione del diritto all’oblio (inteso, si guardi bene, come diritto alla conservazione dell’attualità della propria identità digitale) la parte lesa deve rivolgersi direttamente al motore di ricerca a prescindere dal ruolo che possa avere nella vicenda l’editore web. Pertanto Google o altro motore di ricerca provvede alla deindicizzazione del contenuto asseritamente lesivo senza neppure chiedere il parere del sito web source che ha generato l’informazione. Andando così verso una deriva rischiosissima in cui il motore di ricerca preferisce autocensurarsi piuttosto che incorrere nel sinistro Data Protection con buona pace dei gestori dei siti web source che non possono che stare a guardare.
Ecco dunque il parossisismo. Fino ad ora si parlava di persona prigioniera della Rete. Ora si può parlare anche di gestore web prigioniero della Rete in quanto non più gestore libero dei contenuti originati ovvero non più libero di valutare insieme all’interessato il corretto trattamento dell’informazione.
Leggiamo insieme, direttamente dalla voce della Suprema Corte del Lussemburgo, la statuizione del nuovo tipo di trattamento operato dal gestore del motore di ricerca:
“Sulla seconda questione, lettere c) e d), concernente l’estensione della responsabilità del gestore di un motore di ricerca ai sensi della direttiva 95/46
62 Con la sua seconda questione, lettere c) e d), il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 debbano essere interpretati nel senso che, per rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine sia di per sé lecita……………………..
82 L’autorità di controllo o l’autorità giudiziaria, all’esito della valutazione dei presupposti di applicazione degli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46, da effettuarsi allorché ricevono una domanda quale quella oggetto del procedimento principale, possono ordinare al suddetto gestore di sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a tale persona, senza che un’ingiunzione in tal senso presupponga che tale nome e tali informazioni siano, con il pieno consenso dell’editore o su ingiunzione di una delle autorità sopra menzionate, previamente o simultaneamente cancellati dalla pagina web sulla quale sono stati pubblicati.
83 Infatti, come si è constatato ai punti da 35 a 38 della presente sentenza, poiché il trattamento dei dati effettuato nel contesto dell’attività di un motore di ricerca si distingue da e si aggiunge a quello effettuato dagli editori di siti web e incide ulteriormente sui diritti fondamentali della persona interessata, il gestore di tale motore di ricerca quale responsabile del trattamento in questione deve assicurare, nell’ambito delle sue responsabilità, delle sue competenze e delle sue possibilità, che tale trattamento soddisfi le prescrizioni della direttiva 95/46, affinché le garanzie previste da quest’ultima possano sviluppare pienamente i loro effetti.
85 Inoltre, il trattamento da parte dell’editore di una pagina web, consistente nella pubblicazione di informazioni relative a una persona fisica, può, eventualmente, essere effettuato «esclusivamente a scopi giornalistici» e beneficiare così, a norma dell’articolo 9 della direttiva 95/46, di deroghe alle prescrizioni dettate da quest’ultima, mentre non sembra integrare tale ipotesi il trattamento effettuato dal gestore di un motore di ricerca. Non si può dunque escludere che la persona interessata possa, in determinate circostanze, esercitare i diritti contemplati dagli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 contro il suddetto gestore del motore di ricerca, ma non contro l’editore della pagina web.
88 Alla luce dell’insieme delle considerazioni sopra esposte, occorre rispondere alla seconda questione, lettere c) e d), dichiarando che gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita”.