tornano sotto i riflettori le strategie per l’Italia digitale e la riforma della PA. È interessante domandarsi qual è la via da cui passa il “cambiamento digitale” e provare a delinearne le direttrici: le dimensioni umana, legislativa e strategica.
La “strada digitale” parte dal presupposto necessario – la cultura digitale – che è cosa ben lontana dal dotarsi di hardware e software e significa far comprendere non solo l’utilizzo, ma anche il valore, le opportunità, le regole e i rischi delle tecnologie. Si tratta di qualcosa che afferisce all’educazione civica, ai diritti e ai doveri di ciascuno e ha a che fare con le persone. Significa creare cittadini digitali consapevoli e attivi. Significa creare civil servants piuttosto che pubblici dipendenti: lavorare nella PA deve diventare cool, essere il migliore dei lavori possibili, perché significa agire per il bene dell’intera collettività, con tutto l’entusiasmo e l’impegno che questo comporta. Cosa c’entrano con questo le tecnologie? Le tecnologie in realtà sono l’innesco di un processo di cambiamento che deve investire la fisionomia della società, dove le keywords dell’agire pubblico siano trasparenza, partecipazione, collaborazione e responsabilità.
Da questo punto di vista il Programma nazionale per la cultura, la formazione e le competenze digitali e la connessa consultazione pubblica online, ponendo al centro le persone e le competenze e facendo leva su trasparenza e partecipazione, sembrano aver imboccato la strada giusta.
All’investimento culturale deve accompagnarsi anche un intervento sulla dimensione legislativa. Le norme ci sono, ma spesso si sono rincorse freneticamente in decreti legge e provvedimenti dalle materie disparate.
Questo naturalmente inficia le caratteristiche di organicità, esaustività e solidità di quello che non a caso si chiama “Codice dell’amministrazione digitale”. Ciò significa recuperare il modo di legiferare, evitando di minare la certezza del diritto e legittimare l’idea silenziosamente presente che le norme in materia siano solo dichiarazioni d’intenti, inattuabili a piacimento, con la nemmeno infondata speranza che potranno cambiare alla prossima riforma. Serve corredare le norme di effettività, agire le responsabilità di mancate attuazioni. Occorre conferire la dovuta autorevolezza alla questione digitale.
Per far tutto questo è necessario un lavoro condiviso ossia un investimento sulla dimensione strategica, che arrivi a generare una governance forte e chiara, dotata di poca formalità e di molta autonomia, ben strutturata e decentrata, permanente e in beta permanente. Se la costruzione dell’open gov avviene a tavolino, in modo distante dai territori, ha già fallito lo scopo che si prefigge. L’innovazione non si riduce infatti a prodotti specifici e a singoli interventi che possano per magia far diventare digitale un territorio, né tanto meno a mode e proclami. L’innovazione è un processo, non un prodotto, che deve integrare principi e strumenti di apertura, partecipazione e collaborazione.
Di nuovo il ruolo centrale è nelle persone. Tutto questo è pervaso da una dimensione trasversale: il coraggio. O meglio il coraggio del cambiamento. In questo senso sono da leggere le recenti norme nel cosiddetto decreto Irpef (d.l. 66/2014) relative a bilanci accessibili e confrontabili, alla libera accessibilità dei dati di Siope e all’anticipato obbligo di fatturazione elettronica, con cui si pongono al centro da una parte trasparenza, apertura e semplicità, dall’altra la volontà di garantire effettività alle norme, il tutto cementato dal coraggio.
La convinzione è che il futuro dell’amministrazione italiana sia e debba essere digitale. Pertanto porta sicuramente a ben sperare sentire il Presidente del Consiglio porre fra i punti strategici della riforma della pubblica amministrazione proprio il capitale umano e l’innovazione tecnologica: oltre alla significativa denominazione dell’indirizzo mail della consultazione sulla riforma (rivoluzione@governo.it), la nuova strada può davvero costituire l’attesa rivoluzione per il futuro del Paese.