VERSO DIGITAL VENICE

Marco Camisani Calzolari: “Sfida digitale vuol dire change or die”

Il digital evangelist parlerà il 9 luglio al Telecom Future center di Venezia: “Non basta più avere un blog o essere su Facebook. Nelle scuole è ormai necessario insegnare la programmazione. Il cambiamento passa col tempo sopra a tutte le resistenze”

Pubblicato il 12 Giu 2014

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Marco Camisani Calzolari è ormai considerato un “Digital evangelist”, autore tra l’altro del libro “Il mondo digitale”: è imprenditore, studioso di business communication, docente universitario, speaker motivazionale. Durante la “digital week” di Venezia avrà uno spazio tutto per sé, il 9 luglio, nella sala del refettorio del Telecom Future Center. Uno speech di quaranta minuti dal titolo “Change or die”, cambiare o morire. “Sono felice di partecipare a un evento così importante, in Italia è un’occasione unica, perché non ci sono eventi di questa portata”.

Che senso pensa di dare al suo intervento?

Parto dal principio che non si fa mai abbastanza alfabetizzazione digitale, e che invece ce ne sarebbe un gran bisogno. A dimostrarlo ci sono i casi di Airb&B o Uber: esempi molto pratici che entrano nella vita di tutti e cambiano interi settori, come nello specifico le agenzie e i taxi, e sono valutabili con precisione, non siamo davanti a “bolle”. Il mondo, a prescindere da come lo vogliamo vedere noi, va avanti con una forza distruttiva del vecchio che non può essere combattuta con i mezzi tradizionali.

Come valuta le resistenze al cambiamento che ancora si registrano?

Siamo nella situazione in cui a parlare di digitale e industria dei media i relatori sono Gino Paoli e Fedele Confalonieri. Ma loro non sono più i rappresentanti dell’industria digitale, che anche in Italia è sempre più Spotify, o Apple. Una volta queste battaglie si combattevano con i convegni, e coinvolgendo i giornali si riusciva a spostare qualcosa. Ma oggi da certi convegni si possono soltanto ottenere un po’ di oscurantismo, il tentativo di non far succedere nulla o di proporre qualche legge per bloccare qualcosa: vuol dire non essere capaci di rendersi conto di che cosa stiamo parlando.

Eppure le informazioni non mancherebbero…

L’altra cosa incredibile, infatti, è che queste cose sono scritte dappertutto: evidentemente ci si rende conto solo parzialmente della portata del cambiamento. Si spera di fermare il processo per un po’, cercando di mantenere una posizione di rendita. Ma questa è anche una grande opportunità per molti, soprattutto per chi non ha una posizione da difendere.

Più lo si dice, soprattutto alle imprese, e più magari invece di morire, o di farsi trascinare nel flusso dell’azienda californiana di turno che nella propria micronicchia si mangia tutto, magari si apre la strada a qualche idea.

E da dove si può partire per creare questa consapevolezza?

Per prima cosa bisogna avere voglia. Bisogna intraprendere una strada ed essere convinti di volerla seguire. Poi il “come” arriva facilmente, perché uno studia, capisce e fa. Il mio obiettivo è di far venire questa voglia. In 40 minuti c’è poco da spiegare, bisogna trovare un modo, e mi sembra di averlo trovato con il concetto di “Change or die”, cambia o muori, dove cerco di far venire voglia di dire “Bene, adesso è arrivato il momento di non morire, e di cambiare. Di incominciare a pensare seriamente al digitale per la mia azienda, per il mio settore, e fare qualcosa, magari anche di grande. Non è detto che anche senza grandi investimenti non si possa diventare leader mondiali in certe nicchie. Lo spirito è quello di dire “ragazzi dovete muovervi, dovete prendere il digitale sul serio”. Non con il bloggino, non dicendo “Ho Facebook, ho Twitter, ho fatto tutto quello che dovevo fare”, perché altrimenti il rischio domani è di dover andare a scioperare in piazza, facendo il favore ai vari Uber che nei giorni dello sciopero dei taxi hanno visto le registrazioni crescere dell’850%.

Il primo workshop dell’8 luglio riguarderà le competenze digitali. Quali sono le prime cose da fare in questo campo?

E’ fondamentale trasmettere la consapevolezza di quanto sia importante di lavorare in questo settore, facendo capire di quanti professionisti ci sarebbe bisogno, soprattutto in un Paese come il nostro in cui la disoccupazione giovanile è alle stelle. Non è difficile farlo: basterà dire che entro il prossimo anno quelli che guadagneranno di più sono i programmatori Swift, il nuovo linguaggio di programmazione Apple, lanciato una settimana fa, e che ancora nessuno conosce. Serve qualche base, ma in un mese di studio chiunque è in grado di fare applicazioni con quel software anche se fino a ieri non aveva mai acceso un computer. L’altro aspetto è la scuola. Ormai i bambini e i ragazzi non devono più imparare l’informatica: sanno già usare il tablet, spesso ce l’hanno in famiglia. Il punto è insegnare a programmare, anche a scuola. Perché si insegna la matematica, ma in realtà bisognerebbe insegnate a tutti fin da piccoli anche a programmare.

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