In Italia l’innovazione non è la norma, ma passa esclusivamente dalla norma. È questa la fotografia scattata dalla ricerca 2013 dell’Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano, presentata oggi a Roma presso l’Agenzia per l’Italia Digitale, secondo la quale la PA solo se obbligata a innovare, o sanzionata in caso di mancata introduzione, si apre all’innovazione.
Lo dimostrano le Gestioni Associate delle funzioni comunali, che hanno iniziato a diffondersi quasi esclusivamente in seguito di un impulso normativo (il DL 78/2010, il DL 95/2012 e la recente legge “Del Rio” 59/2014), o il tema dell’Open Government, che ha prevalentemente trovato diffusione nell’attuazione del DL 33/2013 con gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle PA. Laddove, invece, non esistono norme o sanzioni, l’innovazione fatica a decollare. Ne sono un esempio i pagamenti multicanale, con più del 72% degli enti censiti che ammettono di non aver attivato alcun sistema di pagamento innovativo.
“In Italia circa 60% delle PA dichiara di aver sviluppato progetti di innovazione nell’ultimo anno. Dalla nostra ricerca emerge che quando l’intervento di Enti nazionali o regionali contempla l’utilizzo di strumenti normativi coercitivi (law enforcement) l’uniformità e la rapidità di implementazione delle singole misure aumentano (compliance) – spiega Giuliano Noci, Prorettore del Politecnico di Milano e Responsabile Scientifico dell’Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano – Ne è un esempio il traguardo di alcuni degli obiettivi dell’Agenda Digitale Italiana quale quello relativo all’Amministrazione Trasparente, la cui mancata implementazioni avrebbe comportato sanzioni e che risulta già realizzata o in fase di realizzazione per il 79% dei Comuni. Ancora molto lontani da questi livelli di diffusione sono altri sistemi come l’identità digitale, il domicilio digitale, la conferenza dei servizi telematica e i pagamenti elettronici. Anche scegliendo la “via” dell’obbligo di legge, però, molto spesso quelli che si raggiungono sono risultati quasi controproducenti o comunque soluzioni non efficienti per la Pubblica Amministrazioni né adeguate ai bisogni dell’utenza. È il caso dello stessa Amministrazione Trasparente con gli Enti obbligati per legge a diventare trasparenti pubblicando i propri dati per contrastare la corruzione e l’inefficienza: l’89% degli Enti intervistati ha dichiarato di pubblicare i dati in Pdf, che non appartiene ai formati aperti e che non consente un facile utilizzo da parte di terzi interessati”.
Altro caso è rappresentato dall’eProcurement, fermo a una trasposizione in digitale del processo tradizionale più che indirizzato verso una vera ricerca di innovazione. Se infatti l’utilizzo di piattaforme di eProcurement per l’acquisto di beni e servizi ICT è una pratica diffusa (82% degli Enti), l’indagine dell’Osservatorio mostra anche come solo il 7% dei potenziali fornitori della PA intervistati ha sperimentato le piattaforme, e queste dichiarano che le criticità maggiori sono proprio relative agli adempimenti burocratici necessari per accreditarsi ai sistemi (60%) e alla documentazione tecnico-amministrativa che è necessario produrre per l’abilitazione alla fornitura di prodotti e servizi (64%). Un’impresa su due afferma inoltre che il passaggio a piattaforme elettroniche non favorisce l’accesso al mercato della Pubblica amministrazione, in quanto non contribuisce alla semplificazione e alla riduzione dei tempi del processo di vendita. Le piattaforme disponibili oggi sono infatti ritenute strumenti complessi e onerosi da utilizzare per il 48% degli operatori economici.
“Se da un lato le aziende riconoscano nel passaggio a piattaforme elettroniche una potenziale occasione per semplificare le procedure e per ampliare i propri canali di vendita – sottolinea Michele Benedetti, responsabile della Ricerca dell’Osservatorio eGovernment –, dall’altro l’indagine, svolta in collaborazione con il Sistema camerale, ha fatto emergere ancora un forte fattore reputazionale, che porta il 40% delle aziende a rinunciare a servire il mondo della Pubblica Amministrazione, poiché caratterizzato da eccessiva burocrazia e tempi di pagamento eccessivamente lunghi”.
Entrando nel dettaglio dell’indagine – coinvolti 619 enti tra Province, Comuni e loro Gestioni Associate – si evidenzia che circa il 60% degli enti ha sviluppato progetti di innovazione nell’ultimo anno: circa l’80% di questi sta gestendo più di un progetto in autonomia o con altri enti e ci sono Comuni che hanno attivi più di cinque progetti contemporaneamente (2,6%). Inoltre, l’1% ha svolto un progetto in collaborazione con enti pubblici di altri Paesi e il 5% con partner privati di caratura internazionale.
I Comuni sembrano concordare su chi dovrebbe coordinare le politiche di eGovernment: circa il 60% dei Comuni al di sopra dei 10.000 abitanti individua nel governo regionale il soggetto più autorevole per coordinare l’azione di rinnovamento della PA locale, mentre quelli inferiori ai 10.000 abitanti ripartiscono tale compito tra Regioni (48%), Gestioni Associate (21%) e Province (14%). Il supporto richiesto riguarda sia l’ambito delle infrastrutture (41%), che i Comuni da soli non si sentono sempre in grado di poter realizzare autonomamente, sia il supporto nella gestione dei progetti di innovazione, attraverso azioni di natura formativa (67%), di messa a disposizione di personale specializzato (32%) e di consulenza (31%). Non manca infine chi chiede un coordinamento anche per attivare azioni volte a sensibilizzare la cittadinanza su questi temi (30%). In mancanza di questo supporto, gli enti sembrano avere ancora molte criticità nella gestione operativa dei progetti di innovazione. Meno del 33% dei Comuni dichiara di aver portato a termine con successo il 75% dei progetti gestiti negli ultimi 3 anni. Più della metà ne conclude con successo meno del 50% e un Comune su quattro non è riuscito a portarne a termine nessuno. Nel 35% dei casi c’è inoltre la possibilità che i risultati prodotti non vengano più utilizzati (che diviene una certezza nel 7% dei casi): le cause risiedono principalmente nelle scarse risorse economiche per il loro mantenimento (65%).
L’analisi dei dati raccolti dall’Osservatorio evidenzia che quando un ente dispone sia di un ufficio dedicato alla gestione dell’innovazione sia di un referente politico di riferimento aumenta considerevolmente la percentuale di successo dei progetti realizzati, così come la capacità di manutenere nel tempo le soluzioni implementate. Allo stesso modo, l’esistenza di un ufficio dedicato all’innovazione combinato con un adeguato sistema di incentivi al personale, sembra aumentare anche la capacità di ottenere finanziamenti europei.
Dall’indagine emerge come circa il 47% degli enti prenda sempre in considerazione soluzioni Ict implementate da altre realtà, il 24% lo faccia solo in casi specifici (ad esempio, se adottata da numerosi enti) mentre il 29% non lo consideri affatto. Questa propensione dichiarata non si concretizza, però, nella scelta della pratica del riuso: da un punto di vista operativo, solo il 16% degli Enti dichiara di aver preso a riuso una soluzione e solo il 2%, di aver ceduto ad altri Enti un proprio progetto. Seppure la diffusione del riuso sia ancora limitata, coloro che hanno optato per tale scelta si sono dichiarati soddisfatti, evidenziando soprattutto benefici principalmente di tipo economico. Le soluzioni più idonee al riuso risultano quelle a supporto delle attività produttive (39%). La motivazione sembra legata a un’offerta pubblica migliore di quella privata, sia in termini di costi, ritenuti inferiori rispetto al mercato del 59% dei riusanti, sia in termini di rispondenza alle esigenze degli Uffici (39%). La maggiore criticità percepita da chi ha affrontato un processo di riuso risulta essere la formazione del personale all’utilizzo delle nuove soluzioni, indicata da un Ente su due. Seguono le difficoltà di gestione del processo di introduzione della soluzione e quelle per ricercare le soluzioni a riuso.
Secondo gli sperti del Polimi il processo di aggregazione è avvenuto sinora quasi esclusivamente a seguito d’un impulso normativo, pertanto l’associazionismo è stato percepito più come un mero adempimento amministrativo che come un’opportunità per migliorare la gestione intercomunale. Gli enti aderenti, infatti, sono nella maggior parte dei casi concentrati tra i quattro e i dieci Comuni e il loro anno di istituzione è compreso tra il 2001 ed il 2004 (37%) e tra il 2009 ed il 2012 (21%), periodo che coincide con le evoluzioni e restrizioni normative sul tema. Delle undici funzioni minime gestite dai Comuni, solo il 22% afferma di averne ricevute in delega più di quattro.
Più della metà degli enti ha comunque segnalato come la Gestione Associata abbia prodotto una riduzione dei costi; circa l’80% è soddisfatto dalla semplificazione e standardizzazione delle procedure interne, che comporta anche un aumento dell’efficienza del personale (86%). Inoltre, l’80% degli Enti segnala il miglioramento della trasparenza nei confronti dei propri cittadini, grazie a un più semplice accesso di questi ai servizi offerti dall’amministrazione (42%) e alla loro riduzione dei tempi di erogazione (39%), al tal punto che, se la Gestione Associata include l’ufficio Suap, i tempi di gestione dei procedimenti risulta inferiore a quello degli Enti autonomi. Infine, anche la capacità di attrarre investimenti risulta migliorata (71% dei casi), soprattutto grazie alla possibilità di mettere a fattor comune la gestione degli acquisti (67%) e la competenza nella scelta dei prodotti/servizi (49%).
La gestione integrata delle funzioni offre quindi anche nuove opportunità di migliorare l’attuale configurazione della Pubblica amministrazione per implementare nuove soluzioni che si fondino su variabili organizzative e tecnologiche al fine di aumentare e omogeneizzare la qualità dei servizi erogati all’utenza, sfruttando i paradigmi tipici dell’eGovernment. Se circa metà delle gestioni associate ha ricevuto la delega dell’Ict (principalmente catasto, servizi sociali, polizia locale e protezione civile), nella quasi totalità dei casi i servizi Ict sono migliorati. Nel 92% dei casi si sono ottenute anche riduzioni dei costi dell’Ict, soprattutto grazie alle economie di scala, e il personale dedicato ai sistemi informativi è risultato più competente rispetto alla gestione autonoma comunale (85%). Sebbene il numero di attività legato all’Ict esternalizzate sia rimasto sostanzialmente invariato, nell’83% dei casi il servizio è qualitativamente migliorato e si sono ottenuti risparmi di almeno il 10% (78%) con alcune eccellenze superiori al 50% (8%). Allo stesso modo, anche il rapporto con le imprese fornitrici è migliorato (83% dei casi) e ciò ha facilitato l’esternalizzazione di alcuni servizi (69%), lasciando però alla Gestione Associata le attività strategiche (circa due terzi dei rispondenti).
L’utilizzo di piattaforme di eProcurement per l’acquisto di beni e servizi Ict è una pratica diffusa (82% degli enti) e le PA che ancora non effettuano acquisti elettronici si stanno preparando per farlo, anche se, a bene vedere, solo l’11% è realmente passato al telematico con più del 75% degli acquisti tramite piattaforme elettroniche. Gli enti riconoscono il vantaggio di potersi rivolgere a un numero maggiore di fornitori (83% dei rispondenti) e uno su due dichiara che il passaggio agli acquisti telematici ha favorito la semplificazione delle procedure d’acquisto, l’aumento della trasparenza e la riduzione dei prezzi dei beni.
Tuttavia a fronte di questi vantaggi portati dalla disintermediazione, sono presenti differenti criticità e non solo, come visto in precedenza, sul fronte delle aziende: due Comuni su tre, infatti, hanno difficoltà a ricercare i prodotti desiderati e a definire a priori la qualità della fornitura e il livello di servizio. Criticità che impattano sensibilmente sul processo d’acquisto, infatti un Ente su tre dichiara che la valutazione ex ante di un fornitore rappresenta una fase complessa del processo di acquisto; complessità che aumenta spostandosi da prodotti standard a beni più complessi, come la fornitura di servizi.
La Ricerca ha voluto approfondire, in collaborazione con Doxa, la propensione dei cittadini all’utilizzo di sistemi digitali di pagamento nei confronti degli enti pubblici: circa il 63% degli intervistati utilizza regolarmente almeno uno strumento per connettersi ad internet, prediligendo il personal computer (60%), seguito dai telefoni cellulari (40%) e dai tablet (17,5%). Il 23,5% afferma di aver effettuato almeno un pagamento elettronico rivolto alla Pubblica Amministrazione, sebbene tale valore si differenzi per tipologia di versamento effettuato: il pagamento di tasse e imposte viene effettuato più facilmente in modalità elettronica (16%), rispetto all’acquisto di servizi (12%), oppure alla regolarizzazione di sanzioni amministrative (5%). La propensione al pagamento deriva anche dal profilo del soggetto pagatore: infatti, è più probabile che i pagamenti vengano effettuati da persone con meno di 55 anni, laureate (più della metà degli intervistati) o che risiedono in comuni con più di 100.000 abitanti. Le ragioni che portano a non utilizzare canali di pagamento digitali sono sia culturali, sia di mancanza di fiducia verso lo strumento, ma tra il 12% e il 19% (a seconda della tipologia di pagamento) anche la non corretta gestione e comunicazione dei sistemi di pagamento disponibili incide nella disaffezione lamentata dai cittadini.
Sul fronte dell’offerta messa a disposizione dal settore pubblico ai cittadini, poco più di un quarto dei rispondenti al questionario somministrato a marzo 2014 (247 Comuni o loro Gestioni Associate) afferma di mettere a disposizione un sistema di pagamento digitale alla propria utenza, mentre nei Comuni maggiori di 50.000 abitanti tale valore supera i due terzi (67%). Mediamente i canali aperti sono due e corrispondono principalmente alla banca tesoriera dell’ente (94%) e alle poste (82%). Ove sviluppati, secondo gli intervistati la percezione è che i sistemi di pagamento multicanale abbiano prodotto benefici prevalentemente in termini di miglior immagine per l’ente (46%), riduzione dei tempi dei procedimenti (41%) e di riscossione (40%).
Le criticità emerse non riguardano soltanto il rapporto con l’utenza, bensì anche il coordinamento interno agli uffici comunali. Se dalla Ricerca risulta che ancora più del 72% degli Enti intervistati non ha attivato sistemi di pagamento innovativi, la principale criticità addotta è quella di non riuscire a gestire con adeguate risorse e competenze il processo di cambiamento necessario per la corretta adozione dei nuovi strumenti; oltre a ciò, permangono una cronica insufficienza di risorse economiche (metà dei casi), uno scarso interesse da parte del vertice politico a questi temi (34%) e una mancanza di competenze interne o del tempo da investire da parte dei funzionari preposti (33%).
Lo studio accende i riflettori anche sull‘open government. In Italia l’open government viene attuato tramite il DL 33/2013 che impone la Trasparenza agli Enti e li sanziona in caso di inadempienza, ma in cui il percorso che le amministrazioni locali dovranno compiere in termini di comprensione delle motivazioni, delle potenzialità e dei benefici per il territorio di una PA più inclusiva e vicina ai suoi stakeholder, sembra ancora lungo.
A circa un anno dall’entrata in vigore del decreto, infatti, poco meno di un ente su due afferma di aver assolto gli obblighi di legge, con maggiori difficoltà e ritardi da parte dei Comuni con meno di 5.000 abitanti, che lamentano (73% dei rispondenti) la mancanza di competenze necessarie alla gestione della sezione trasparenza sul sito web, e l’inadeguatezza/inesistenza dello strumento informatico utilizzato per la pubblicazione (39%). Anche gli enti di medie o grandi dimensioni, con più di 25.000 abitanti, evidenziano criticità derivanti dall’attuazione del decreto, ascrivibili, per l’88% dei rispondenti, alla difficoltà di comprendere quali dati pubblicare e, per il 75%, all’organizzazione e gestione della loro raccolta. Inoltre, se il 62% dei rispondenti afferma di aver adottato il Programma Triennale per la Trasparenza e l’Integrità e di averlo collegato al Piano delle Performance, la percentuale crolla vistosamente al 7% quando si indaga la realizzazione di “giornate della Trasparenza” per la presentazione del Piano e la Relazione sulla performance agli stakeholder dell’Amministrazione, con l’obiettivo di coinvolgere i cittadini e aumentare la loro partecipazione.
Gli strumenti a supporto della realizzazione dei processi partecipativi restano quindi quelli tradizionali dell’Ente, meno del 15% dei rispondenti dichiara infatti di utilizzare tecnologie web e ben il 64% dei rispondenti afferma di non essere presente in alcun Social Network, percentuale che sale all’80% nei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. In particolare, l’analisi rileva che il 52% delle Regioni ha attivato una pagina Facebook e il 57% un account Twitter, mentre il 38% possiede un account per entrambi i Social Network. Per quanto riguarda i Comuni Capoluogo di Provincia, si rileva una vera esplosione nell’utilizzo dei due strumenti. Infatti, incrementano del 28% i profili Facebook, e del 74% quelli Twitter rispetto al 2013, portando al 59% i Comuni Capoluogo di Provincia che possiedono un profilo ufficiale su Facebook e al 63% quelli con un account Twitter, mentre il 42% ha entrambi i profili.