PUNTO DI VISTA

Più donne nell’Ict, così la Ue cresce

Emma Pietrafesa, ricercatrice Inail: “Bisogna ripensare le politiche del lavoro valorizzando il ruolo delle donne nei centri decisionali”

Pubblicato il 12 Lug 2014

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Ict per l’Europa rappresenta il 6-8% del Pil e la possibilità di affrontare le sfide della globalizzazione incentivando l’innovazione, la creatività e la competitività del sistema economico. Queste nuove tecnologie sono diventate forza e perno dei cambiamenti sociali anche nella ridistribuzione dei carichi ed impegni socio-familiari. Già dall’inizio del nuovo millennio la domanda di lavoratori specializzati nel settore è stata in costante crescita. A livello globale, il valore creato da internet ricade per tre quarti nell’economia cosiddetta tradizionale e solo per il 25% nell’industria tecnologica; ecco perché nel nostro paese il cosiddetto digital divide (divario digitale) incide in modo significativo sull’intera economia nazionale. C’è infine un ulteriore dato interessante che impatta sull’economia: poiché le’Ict si fondono con le tecnologie specifiche di diversi settori applicativi, queste vanno ad alimentare posti di lavoro “ibrido”.

E le donne? A dispetto di svariati e consolidati dati statistici e autorevoli studi internazionali sulla positiva inclusione delle donne nel mercato del lavoro e nell’economia globale, vi è ancora una resistenza/persistenza diffusa a non valorizzare e incentivare la loro presenza delle donne all’interno dei settori produttivi e decisionali.
Analizzando gli scoreboard europei le donne nell’Ict rappresentano solo il 30% della forza lavoro su 7 milioni di individui che lavorano nel settore. Uno studio della Commissione europea stima che attraverso un’inversione di tendenza e una percentuale femminile nel comparto digitale pari a quella maschile, il Pil europeo registrerebbe un incremento di circa 9 miliardi di euro l’anno. Come mai allora il divario di genere è ancora così evidente? I fattori che impediscono alle donne di essere protagoniste alla pari nel digitale sono molteplici: tradizioni culturali e stereotipi sul ruolo delle donne; barriere interne come i fattori socio-psicologici; barriere esterne come un ambiente a forte predominanza maschile, difficoltà di conciliare vita e attività lavorativa e mancanza di modelli di riferimento nel settore.

Ancora troppe poche donne – 29 su 1000 – conseguono un diploma universitario di primo livello in Ict e di queste solo 4 su 1000 lavorano effettivamente nel comparto; le donne tendono a abbandonare il settore a metà carriera e sono sottorappresentate nelle posizioni manageriali e di responsabilità: solo il 19,2% degli addetti settore Ict ha un capo donna, contro il 45,2% in altri settori. Solo il 7% ha raggiunto posti di rilievo e la percentuale è diminuita ancor di più nell’ultimo anno. Eppure rispetto alle colleghe di altri comparti economici, le lavoratrici del settore guadagnano quasi il 9% in più e godono di maggiore flessibilità nello svolgimento della propria attività lavorativa.
Quando si parla di divario digitale deve essere considerat anche la componente sociale; in Italia quando si parala di divario digitale di genere è importante introdurre un’altra variabile ovvero l’età. Se fino ai 34 anni di età le differenze di genere risultano molto contenute e si accentuano a partire dal cluster 45-54 anni, queste raggiungono un picco pari quasi al 15% nella fascia d’età tra i 60- 64 anni. Questo dato dovrebbe essere considerato e valutato con particolare attenzione, in considerazione del fatto che le donne di questo cluster anagrafico, con le recenti riforme del mercato del lavoro resteranno all’interno del ciclo produttivo ancora per vari anni e che le stesse sono in molti casi impiegate in settori nevralgici per il sistema paese ovvero PA, Sanità e Istruzione.

Serve un ripensamento delle politiche di organizzazione del lavoro che promuovano le donne nei luoghi decisionali delle imprese e che facilitino la traduzione concreta di approcci che, attraverso le nuove tecnologie migliorino efficacemente la qualità della vita di tutti, promuovendo il benessere collettivo in tempi rapidi. Ciò significa innescare circoli virtuosi di comportamento nelle aziende e nelle persone, rendendo premianti le condotte positive e penalizzando le politiche discriminatorie. Bisogna capovolgere il concetto di ciò che è vantaggioso.

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