LABORATORI DI INNOVAZIONE

Google: startup sì, ma underground

Si trova al centro della “Silicon Roundabout” di Londra il Campus che BigG ha messo a disposizione di hub e acceleratori. Ma è nel seminterrato che prende corpo la futura tech-community europea. Tra seminari e sessioni di pitch nascono qui le idee che puntano alla ribalta. E al cuore dei finanziatori

Pubblicato il 17 Set 2014

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Se volete far vibrare di eccitazione un inglese di 23 anni, non parlategli di Rock’n’ Roll. Nominate piuttosto Air B’n’B.
Da qualche anno, infatti, l’idea di iniziare a gestire un’attività online sembra avere più mordente sui giovani dell’antiquato costume di suonare in una band e girare il mondo. Per rendersene conto basta passeggiare a Londra nell’area urbana, un tempo malfamata, compresa tra le stazioni di Old Street e Shoreditch High Street. Provate a fermare un passante (non avrà più di 35 anni) e a chiedergli cosa fa di mestiere. Vi risponderà che ha fondato o lavora per una startup. Le ragioni di questo improbabile moto di redenzione sono semplici: questi ragazzi vogliono fare un sacco di soldi e avere un successo planetario, come le rock star. Quelli di loro che hanno già sfondato si vestono persino come rock star.

Questi giovani redenti imprenditori hanno incontrato da subito il favore della destra britannica e, dal 2010, hanno ricevuto il pubblico endhorsement di David Cameron, che si è impegnato a far fiorire questo modello imprenditoriale. Vediamo come.
All’inizio degli anni 2000, i primi imprenditori della tech industry iniziano ad affittare ad uso ufficio i magazzini dismessi dalle parti di Old Street: gli affitti sono bassi e il quartiere è a due passi dalla City. Le stanze sono enormi e, a queste primordiali startup, bastano un paio di scrivanie. Perché allora non condividere gli spazi con altre persone con le stesse esigenze? Il quartiere si riempie e così si forma, in modo naturale, quella che diventerà la tech community londinese, sul modello della californiana Silicon Valley. Matt Biddulph, fondatore di Dopplr, si guarda intorno e dice scherzando: “Gli agenti immobiliari la dovrebbero chiamare Silicon Roundabout!”. Certo. Lontano dal sole e dagli enormi spazi della West Coast, il meglio del web europeo si sviluppa attorno a un inglesissima rotatoria. E’ una battuta geniale! Gli agenti immobiliari non se la fanno scappare.
Nel giro di pochi anni la tech community ha rilanciato l’intera area, gli affitti sono saliti, il governo non può ignorare il cambiamento. Sorvolando sull’ispirazione generalmente liberal delle web companies, l’esecutivo introduce nel 2010 vantaggiosissime agevolazioni fiscali per i fondatori di startup e Ltd., simili alle nostre S.s.l.r.. Ai lavoratori del settore pare che Cameron voglia salire in corsa su un treno che già viaggia per conto proprio, ma nessuno storce il naso quando il premier coinvolge nel progetto grandi compagnie come BT e Google.

Google, in particolare, acquista un intero edificio e lo mette a disposizione delle piccole nascenti aziende. Nell’aprile 2012 nasce così Campus. Attenta a non inserire il proprio nome all’interno del logo, Google vuole far sì che quello spazio sia davvero di tutti. E lascia che sia il resto del mondo a chiamarlo Google Campus.

Il Campus, al suo interno, è organizzato come una versione in piccolo della Silicon Roundabout: sui vari piani sono dislocati vari hub, quelle società, cioè, che affittano scrivanie a basso costo ai lavoratori del settore, e le cosiddette accelerators, compagnie che selezionano e investono sulle startup che ritengono più meritorie, offrendogli spazi, visibilità e soprattutto ponti di contatto con potenziali finanziatori. Nell’arco della settimana le società ospiti e Google stessa organizzano al piano terra seminari, occasioni di networking, sessioni di pitch, a cui si accede a prezzi molto bassi, spesso gratuitamente. Nei suoi due anni di attività, il Campus ha accumulato oltre 22mila membri registrati provenienti da 61 diversi paesi ed ha ospitato più di 2mila eventi per un totale di 70mila visitatori. Un successo.

Eppure, se il Campus è divenuto il principale riferimento per i giovani della Tech City, la ragione va cercata al di sotto del livello stradale: il piano seminterrato del Campus è aperto a chiunque voglia dare il via alla sua impresa. Sedersi a una delle scrivanie non ha alcun costo, basta trovare un posto libero. Una volta a settimana degli impiegati di Google si offrono di fare da mentori per le strategie di impresa. I ragazzi lavorano sui loro siti, preparandosi ad affrontare le sessioni di pitch di fronte agli investitori. Ogni startup, infatti, persegue tre obiettivi, al fine di portare avanti il proprio lavoro: accedere ai fondi governativi, conquistare il cuore di alcuni finanziatori privati (i Business Angel Investors, o Venture Capital), o venire incorporati in un’azienda accelerator.

La selezione è durissima. Tuttavia l’accesso a queste risorse non è impossibile: è cura dei programmi governativi e delle aziende web pienamente affermate far confluire l’interesse e i fondi degli imprenditori verso la Silicon Roundabout. Perciò, ogni anno, alcune startup lasciano il seminterrato del Google Campus per trasferirsi in uffici meno affollati, pagati grazie al valore della loro idea. È galvanizzante vedere dei ragazzi poco più che ventenni ottenere investimenti con numeri a sette cifre.

Ovviamente la via del successo è preclusa alla maggior parte delle startup: dei 619mila milionari residenti nel Regno Unito, solo il 5% è disposto a investire in un Venture Capital. Di tre startup, solo una è destinata a vedere il suo terzo anno di vita. La critica maggiormente mossa ai “ragazzi del seminterrato” è quella di aver intasato il mercato con progetti poco consistenti destinati al fallimento. Nondimeno, la community è determinata a prendersi cura delle sue creature più fragili. Il messaggio imperante è “Credi nella tua idea e portala avanti e se fallisci ricomincia”. Gli imprenditori affermati si propongono come mentori delle nuove generazioni ed ogni evento di networking diventa un’occasione per confrontarsi e ricevere consigli da chi ha già costruito un business di successo.

Intanto, il Campus può continuare a vantare risultati positivi. Le stime di Google rivelano che nel primo anno di attività del Campus un capitale di investimento di 34 milioni di sterline è stato convogliato verso le startup ospiti da fondi governativi, Venture Capital e Accelerators. Considerato che si parla di startup estremamente giovani, il risultato è impressionante.
Vi è un’ultima considerazione da fare, che qualifica l’esperimento di Google come un tassello fondamentale per la creazione di una Tech-Community europea: il giro di affari del web ha portato alla ribalta un’area urbana un tempo trascurata, ma la conseguenza di ciò è che le giovani compagnie hanno sempre meno accesso agli affitti, ormai altissimi intorno alla rotatoria di Old Street. In pratica le startup sono costrette ad allontanarsi dall’ecosistema che hanno contribuito a creare, per spostarsi nelle periferie intorno a Stratford e Canary Wharf, ove gli spazi sono tuttora abbordabili. Il Guardian ha definito questa transumanza verso est come “la lenta morte della Silicon Roundabout”. Quando questa trasformazione si sarà compiuta, è lecito sperare che il palazzo di Google continuerà a garantire ai giovanissimi imprenditori una scrivania alla quale sedere a pochi metri dal centro finanziario di Londra, dalla City, dal centro del mondo.

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