EDUCATION 2.0

Riapre la scuola, ma è offline

il Governo scommette sul digitale: insegneremo la programmazione
Ma le aule cablate sono ancora poche. E si apre la caccia grossa ai finanziamenti

Pubblicato il 18 Set 2014

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Negli Usa tra gli sviluppatori di App di successo ci sono ragazzi di 12 anni che “maneggiano” con disinvoltura i nuovi linguaggi informatici, garantendosi così una possibilità di lavoro per il futuro. Una situazione lontana anni luce da quella italiana, dove la scuola digitale arranca e dove i ragazzi sono spesso più consapevoli dei mezzi di quanto non lo siano i loro insegnanti. Mentre il Governo Renzi è impegnato nel cantiere del “mille giorni” su una nuova riforma della scuola che punti sull’innovazione e sul digitale, il confronto con l’estero è impietoso: “Rispetto al Nord Europa – spiega Paolo Ferri, docente all’università Bicocca di Milano ed esperto di scuola digitale – il gap è di almeno 10 anni”.

“L’Ict è presente come disciplina curricolare un quasi tutti i paesi europei, con l’unica eccezione di Italia e Portogallo”, evidenzia “Scuola 2.0 – Innovazione dei modelli didattici e nuove tecnologie per la scuola del futuro”, il paper di Glocus pubblicato quest’estate, da cui emerge che le aule in rete sono il 54,2% del totale, quindi 155.100 in tutto. Numeri che dimostrano un ritardo italiano rispetto all’Ue, nonostante il “piano nazionale scuola digitale” del Miur. “Le scarse risorse destinate alla scuola nelle ultime finanziarie – si legge sul rapporto – hanno limitato l’efficacia del piano”. Per cablare tutte le aule e tutte le sedi con ampiezza di banda adeguata sia alle esigenze didattiche sia a quelle amministrative potrebbero essere necessari investimenti, secondo le stime di Glocus, per quasi 400 milioni di euro.

Un recente sondaggio di skuola.net su un campione di oltre 1.600 studenti tra gli 11 e i 19 anni conferma la situazione: due su tre dichiarano di non avere in classe una connessione wi-fi o di non utilizzarla per la didattica, mentre soltanto uno su sei ha la connessione e ne è soddisfatto. Solo il 12% del campione inoltre avrebbe la possibilità di utilizzare un pc in classe tutti i giorni, e il 50% non ha mai visto un laboratorio pc. Quanto agli e-book per la didattica, solo il 6,7 degli intervistati ha detto di avere a disposizione un tablet o un pc messi a disposizione dalla scuola, mentre il 78% afferma di non aver mai utilizzato questi strumenti per le lezioni.

“L’errore più grande commesso fino a oggi – continua Ferri – è quello di non aver dotato le scuole di connessioni a banda larga. Poi per recuperare si è deciso, altro errore, di investire non sulle connessioni, ma sugli strumenti, che però invecchiano velocemente. E infine la formazione per i docenti è stata fatta in maniera episodica e non strutturata”.
L’unico modo per colmare il gap, secondo Ferri, è quello di concentrarsi sulla banda larga, e iniziare a dotare tutte le classi delle connessioni: “Si potrebbe utilizzare una quota dei 3,7 miliardi destinati dal Governo per l’edilizia scolastica – afferma – ma poi servirà un piano serio di formazione per gli insegnanti e un software di gestione della didattica e dell’amministrazione per gli istituti”.

Maria Chiara Carrozza, deputato del Partito democratico ed ex ministro dell’Istruzione, ha vissuto da vicino le resistenze e le difficoltà nel cammino per la digitalizzazione della scuola, e ha ben chiaro da dove si dovrebbe partire: “Il problema principale sono le grandi disparità – afferma – Ci sono scuole in Comuni e quartieri ben connessi, e altre dove siamo a zero. Un discorso che vale anche per la preparazione e la motivazione degli insegnanti. Le province, che avevano competenza sulle scuole secondarie, hanno subito nel tempo tagli pesantissimi e spesso non hanno potuto adeguare gli istituti di infrastrutture adeguate. Vale per la banda larga come spesso per l’edilizia. Ora la vera sfida, volendo partire con l’alfabetizzazione informatica, in un contesto che consentirà di insegnare la programmazione sin dalle scuole primarie, è quella di mettere a disposizione le connessioni”.

E proprio sull’insegnamento ai bambini dei linguaggi di programmazione spinge anche Marco Camisani Calzolari, imprenditore e Digital evangelist: “Pochi di noi sono diventati latinisti o matematici – afferma – ma tutti abbiamo imparato a scuola il latino e la matematica, perché erano materie basilari per comprendere il mondo, il contesto in cui viviamo. Oggi – sottolinea – i linguaggi informatici di programmazione potrebbero avere lo stesso ruolo: anche se molti bambini non diventeranno programmatori, sarebbe bene che studiassero questi linguaggi, perché conoscerli vorrebbe dire disporre di uno strumento importante per decifrare la nostra realtà”.

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