Catania: “Italia digitale sulla strada giusta ma manca il messaggio alto”

Il presidente di Confindustria Digitale: “Il premier crede nel digitale ma il Paese non ha ancora recepito. Schierate pedine di peso nelle posizioni chiave: ora bisogna dare autorevolezza alla governance”

Pubblicato il 29 Set 2014

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“È tempo di lavorare, di stare a testa bassa e fare le cose. Renzi ci crede al digitale e lo ha dimostrato in tante occasioni. Ma è necessario che il premier trasferisca il messaggio con forza al Paese e acceleri l’attuazione dei progetti”. Il presidente di Confindustria Digitale, Elio Catania, aaccende i riflettori sulla necessità di dare un colpo di reni all’attuazione dei progetti. Dal Dl Semplicazioni allo Sblocca Italia, dal piano per la Buona scuola a quello per la sanità digitale: “In tutti i più recenti dispositivi di legge – ricorda Catania – c’è il digitale e dunque siamo sulla buona strada. Ma non basta”.

Presidente Catania si marcia al ralenti dunque?

La strategia di Renzi è quella giusta e consiste nella volontà di inseminare il digitale in tutte le strutture della PA. Ma ciò richiede un salto a cavallo da parte della tecnostruttura, ministri, direttori generali. E soprattutto manca il messaggio “alto”. Il Paese non cresce per tanti problemi strutturali, ma soprattutto perché non abbiamo abbracciato la trasformazione competitiva che solo le tecnologie digitali possono consentire. E questo vale per PA, imprese, scuola, sanità e la società tutta.

Siamo in un’impasse?

Il tessuto è in fermento nel nostro Paese. La nascita di decine di startup conferma che ci sono migliaia di giovani che stanno scommettendo sul loro futuro e sul futuro del Paese. Certo, le startup devono diventare parte della filiera industriale. Bisogna lasciare spazio alla creatività costruendo al contempo una strategia di politica industriale in ottica di open innovation. Ma non dimentichiamo che l’Italia è comunque ricca di aziende che sono diventate campioni mondiali nel loro settore, grazie al digitale e grazie alle catene logistiche digitali. E ci sono best practice anche nella PA. Il problema però è che si tratta di eccezioni.

Cosa occorre fare quindi?

Nella PA bisogna spingere sulle architetture nazionali per grandi temi, come scuola e sanità. E concentrarsi su 4-5 progetti, come ad esempio il Fascicolo sanitario elettronico, l’anagrafe unica del cittadino e quella dei contenuti digitali della Scuola. Bisogna fare in modo che questi progetti si attuino. E si può fare in 18 mesi anche perché se non si procede velocemente si prolifera nella situazione attuale, con risultati eterogenei e discordanze a livello regionale. E non si garantisce quell’interoperabilità necessaria all’attuazione dei servizi e a evitare sprechi e duplicazioni.

Quali sono gli ostacoli sul cammino?

La sostanza è che bisogna cambiare passo sui decreti attuativi. Penso a situazioni quali il decreto scavi o le linee guida sull’elettrosmog, ma ce ne sono tantissime: le abbiamo messe tutte nero su bianco in una tabella che riporta lo stato dell’arte e la situazione è sconfortante. E lo stesso Sblocca Italia rimanda a decreti attuativi. Non possiamo aspettare. Renzi ha schierato pedine di peso nelle posizioni chiave del digitale. Ora bisogna dare autorevolezza alla governance con strumentazioni e deleghe esecutive affinché l’orizzonte attuativo dei progetti non vada oltre i 18 mesi. Ripeto, bisogna concentrarsi su poche piattaforme che poi sono quelle che hanno un elevato impatto su cittadini e imprese.

Il team messo in campo da Renzi farà la differenza?

Il comitato di indirizzo ha un ruolo importante che è quello di stabilire le priorità. Bisogna ragionare in logica progettuale e il compito del team deve essere non solo quello di trasformare la PA, ma di dare la spinta digitale al Paese. Certo, si tratta di un compito enorme. Stiamo parlando della trasformazione di tutti i processi. E si tratta di un passaggio determinante che deve essere attuato grazie a una leadership forte pubblica e privata. Un messaggio forte da parte della leadership politica avrebbe inoltre un impatto anche su quella privata, soprattutto sulle imprese più piccole. E bisogna rivedere anche le vecchie logiche come quella dei distretti che in un’economia globale non sono più sufficienti. La trasformazione digitale non è un atto tecnologico ma competitivo e il digitale rappresenta lo strumento. È sui progetti concreti che bisogna puntare.

Ma ci sono le risorse in tempi di spending review?

La spending review produce con fatica risultati marginali, siamo intorno all’1,5% di risparmio. Se si vogliono ottenere benefici importanti allora bisogna passare alla “process digital review” che consente di “attaccare” davvero gli sprechi producendo contemporaneamente il cambio culturale. Ma per far ciò bisogna coinvolgere la dirigenza.

Tornando alle risorse, si può fare affidamento sui fondi pubblici nazionali ed europei?

Chi si trincera dietro la potenziale mancanza di fondi cerca una scusa per non far accadere le cose. Anche perché stiamo parlando di progetti che si ripagano da soli nel breve termine, fra i 24 e i 36 mesi.

Per concludere, ce la farà l’Italia a cambiare?

Una trasformazione di questo tipo richiede uno sforzo collettivo. Noi schieriamo l’intera industria che detiene know how tecnologico, metodologico e realizzativo. E lo mettiamo a disposizione. Il modello fornitori-utenti non funziona più. E il nuovo percorso va disegnato insieme.

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