“L’Italia è a un bivio fondamentale, occorrono regole pro-concorrenziali ma anche spinte decise agli investimenti”. Antonio Nicita, commissario dell’Autorità Garante delle Comunicazioni, spiega che ci stiamo avvicinando a un momento decisivo per le sorti del mercato banda larga italiano.
Nicita, che cosa è in gioco?
Personalmente, credo sia giunto il tempo di un cambio di passo tanto degli approcci regolatori, quanto delle strategie degli operatori. La crisi economica ha rallentato gli investimenti e abbiamo assistito negli ultimi cinque anni a ripetuti annunci, tanto delle imprese quanto dei policy maker. Il ritardo lo paga il Paese e il cittadino-consumatore. I dati dimostrano che siamo la Cenerentola d’Europa e non possiamo più permettercelo. Disporre di reti a banda larga e ultra larga è una condizione essenziale affinché la capacità innovativa possa dispiegarsi e diffondersi in tutti i settori economici. Il resto devono farlo le politiche pubbliche di sostegno della domanda, a partire dai servizi PA.
D’accordo, ma da questo scenario che cosa deriva?
Guardando all’evoluzione dell’approccio europeo, i tempi sono maturi per un definitivo passaggio dalla regolazione fondata sulla service based competition a quella volta a favorire una concorrenza infrastrutturale. E dare incentivi credibili agli investimenti tanto per l’operatore dominante quanto per gli altri operatori che vogliano davvero crescere sul mercato. Dobbiamo favorire una smart regulation che tenga concorrenza e investimenti insieme, considerando il mercato nel suo complesso e il benessere del consumatore. Significa individuare i target credibili e disegnare conseguentemente le regole che ci permettano di conseguirli. Il tempo della concorrenza statica è finito, perché si è dimostrato che non è più sufficiente a garantire investimenti e qualità dei servizi. Questo approccio serve solo a distribuire margini tra operatori che non crescono e a favore una concorrenza asfittica di breve periodo della quale giova solo una parte della popolazione. È una concorrenza infatti fondata esclusivamente sul numero dei concorrenti e non sulla effettiva capacità di concorrere nel lungo periodo su prezzi e qualità.
Ovviamente, va ricordato, lei esprime solo un parere personale, perché sarà il Consiglio a decidere quale strada prendere, nella regolamentazione.
Ovviamente, ma le nostre indagini già da tempo fotografano diverse aree del paese: un’area ad elevata concorrenza anche infrastrutturale, un’area di potenziale concorrenza, una di sostanziale monopolio e una di digital-divide. In questa devono operare forti politiche pubbliche, salvaguardando, è ovvio, la cornice pro-concorrenziale. A mio avviso, la regolamentazione di settore deve prendere atto di questa fotografia e adeguare le regole, anche sperimentando la deregulation. Le bozze già oggetto di passate consultazioni introducono alcuni principi di questo tipo: come ad esempio il principio di differenziazione geografica. Andrebbero poi favorite forme di co-investimento a condizione che da un lato garantiscano il mantenimento della concorrenza e dall’altro avvengano in quadro di automatico adeguamento della regolazione al contesto competitivo che di volta in volta si realizza. La prima caratteristica di una smart regulation è la capacità di adeguarsi rapidamente ai cambiamenti che avvengono sul mercato. Mi sembra condivisibile il principio che le regole possano in qualche misura tener conto delle diverse condizioni concorrenziali che si manifestano sul territorio, specie laddove tali condizioni si cristallizzano, assumendo caratteristiche di persistenza.
Ma come evitare i rischi connessi a una deregulation?
Naturalmente deve restare alta l’attenzione dell’Agcom e dell’Agcm al fine di evitare che forme ancorché timide di deregulation si traducano in nuove barriere all’entrata. Deve però essere chiaro che il valore della concorrenza non può misurarsi soltanto con il numero di operatori attivi in aree che sono strutturalmente diverse dal punto di vista concorrenziale. Va valutata con riferimento ai risultati concreti del processo competitivo, in termini sia di prezzi che di qualità.
Se questo è quanto potrebbe fare il regolatore per incentivare la banda ultra larga che potrebbe fare, invece, il Governo?
Tre cose. La prima la sta facendo: concentrare le risorse nelle zone che hanno bisogno di sostegno. Dovrebbe poi favorire, in queste zone, un’integrazione fisso-mobile delle reti grazie a una semplificazione della burocrazia. Questo aspetto un po’ è stato affrontato ma si può fare ancora molto, per alleggerire gli obblighi in capo agli operatori quanto a permessi e autorizzazioni. Terzo punto, liberare bande di spettro utili per la banda ultra larga.
Gli ultimi due punti alludono a un forte ruolo del mobile.
Dati recenti dimostrano che stiamo procedendo, per fortuna aggiungo io, verso un mondo nel quale la tecnologia Lte, specie nella versione “advanced”, potrà essere un possibile sostituto per le connessioni a banda larga. È chiaro che quando questo accadrà anche la regolazione dell’accesso alla rete fissa dovrà convergere, ridefinendo l’ampiezza dei mercati del prodotto e i conseguenti rimedi. Fino ad allora occorrerà favorire forme di complementarietà, specie nelle aree nelle quali l’offerta di servizi di rete fissa a larga banda è parziale. L’offerta di banda larga mobile andrà rafforzata con nuove frequenze. Già Agcom e Mise stanno lavorando a un valorizzazione dello spettro, spinti dall’Europa. Ciò riguarderà nel breve periodo la Banda L, utilizzabile per supplemental downlink e più in prospettiva forme di sharing (licensed ed unlicensed) nelle bande 2.3-2.4 e 3.6-3.8 Ghz. Da ultima, nell’orizzonte temporale indicato dal rapporto Lamy, la banda 700 Mhz.