Prandini: “Wi-fi obbligatorio? Troppi problemi tecnici”

Il docente dell’Università di Brescia boccia la proposta di legge firmata da 106 deputati: “Così si intasa uno spettro già densamente occupato”. E sugli standard: “Nel testo si fa confusione, alcune tecnologie non sono ancora mature per essere usate”

Pubblicato il 12 Nov 2014

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“Un provvedimento che presenta molte criticità, soprattutto dal punto di vista tecnico, e che rischia di procurare più danni che effetti positivi”. Paolo Prandini, docente di Ingegneria all’Università di Brescia, spiega a Cor.Com cosa non funziona nella proposta di legge – “Disposizioni per la diffusione dell’accesso alla rete Internet mediante connessione senza fili” – presentata dai deputati del PD Sergio Boccadutri, Enza Bruno Bossio, Ernesto Carbone, Alberto Losacco e Gennaro Migliore e firmata da 106 parlamentari.

Cosa non va nelle proposta?

Obbligare gli esercizi commerciali ad installare hot spot wi-fi rischia di intasare ancora di più le frequenze, andando a peggiorare un situazione che già oggi è critica. Ci siamo fatti l’idea che basta accendere il wi-fi per navigare, ma le cose non stanno così.

E come stanno?

Oggi molti collegamenti domestici non vanno come dovrebbero perché lo spettro a disposizione è già occupato. La rete Ip funziona con il principio del best effort: chi è più goloso si prende più banda, chi lo è di meno rimane indietro. Di fatto il wi-fi viene sfruttato appieno da chi fa usi meno lecit della Retei: un utente che utilizza il peer to peer ha più vantaggi di chi vuole, invece, leggere solo la posta elettronica. In questa asimmetria, l’eventuale obbligo di Wi-Fi gratuito e libero da credenziali rischia di creare congestioni e interferenze, ponendo seri problemi di ottimizzazione dell’uso dello spettro. Mi pare di capire che chi ha scritto le legge non ha la padronanza tecnica necessaria sullo spettro ma nemmeno sulla questione standard.

Cioè?

Le proposta di legge fa riferimento allo standard 820.11 wi-fi che non vuol dire nulla. Wi-fi è solo un marchio che acquista significato se associato ad altro.

Nel testo si parla di 820.11N e Ac…

Ecco, il punto dolente è questo. O è “n” o è “Ac”? Inoltre questi standard fanno riferimento a frequenze molto alte che non garantiscono una copertura sulla lunga gittata. C’è poi la questione terminali. I terminali Ac ancora non sono commercializzati, si tratta di una tecnologia in maturazione che presumibilmente sarà utilizzata tra qualche anno e che, comunque, “viaggia” a 6 giga al secondo. Il che vuol dire che il negozio sarà in qualche modo obbligato a stipulare contratti abbastanza costosi con le telco per avere la connessione.

I 106 deputati firmatari dicono che il provvedimento è una leva anti digital divide. Lei che idea si è fatto?

Guardi, anche questa mi pare una giustificazione capziosa. Se la connessione Internet non arriva nel centro abitato come fa il negoziante a dotarsi di wi-fi? Si “ stende” la rete da solo? Il problema del “gap” non si risolve certo in questo modo. Senza contare che non aiuta nemmeno sul fronte del divario culturale.

Cosa aiuterebbe?

Non credo che la semplice diffusione di tecnologia possa incentivare l’alfabetizzazione digitale. Prendiamo i Paesi del Nord Europa che sono presi come esempio dai “difensori” di questa proposta. È vero che lì c’è una grande diffusione di hot-spot. Ma sono soprattutto concentrati nelle biblioteche, negli uffici postali dove un assistente aiuta le persone anziane, o comunque i cittadini meno “tecnologici”, ad usare il Web per accedere ai servizi della PA. L’operazione è, dunque, prima di tipo culturale che tecnologico. Allora io dico apriamo le biblioteche, facciamo cultura prima di fare interventi come quelli della proposta.

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