La “guerra fredda informatica” è in atto e ogni giorno
presenta complessivamente un “conto” molto salato, stimato in
6,3 milioni di dollari. A farne le spese sono soprattutto le
infrastrutture critiche, ossia i sistemi a rete che consentono la
normale vita di un Paese, come quelli di trasporto di persone e
merci, le reti idriche ed energetiche, telecomunicazioni e dati,
sanitarie, economico-finanziarie, le reti di governo, quelle
funzionali alla sicurezza nazionale e alla gestione delle
emergenze. È quanto emerge dal rapporto “Nel mirino,
l’infrastruttura critica nel periodo della guerra informatica”,
commissionato dalla McAfee al Csis-Center for Strategic and
International Studies di Washington, che ha posto in evidenza come
il rischio sia in aumento.
“Lo sviluppo, la sicurezza e la stessa qualità della vita nei
paesi industrializzati dipendono dal funzionamento continuo e
coordinato di un insieme di installazioni che, per la loro
importanza e strategicità, sono definite Infrastrutture Critiche –
spiega Salvatore Tucci, ordinario alla facoltà di ingegneria
dell’Università di Roma Tor Vergata e presidente dell’Aiic –
Associazione Italiana Esperti Infrastrutture Critiche -. Per
ragioni di natura economica, sociale, politica e tecnologica esse
sono diventate sempre più complesse ed interdipendenti. Se ciò ha
migliorato la qualità dei servizi erogati contenendo i costi, ha
però indotto impreviste vulnerabilità, in concomitanza con
situazioni di crisi, eventi eccezionali o atti terroristici.
Fragilità connessa alla loro elevata interdipendenza che rischia
di indurre un pericoloso ’effetto domino’, ripercuotendosi a
tutto il sistema”.
Intervistati per il rapporto di McAfee, il 54% dei 600 dirigenti
responsabili della sicurezza di aziende che, a livello mondiale,
forniscono e gestiscono infrastrutture critiche di 14 Paesi, ha
ammesso di aver già subito attacchi su larga scala o
“infiltrazioni occulte” da parte di gang criminali o di
terroristi.
Proprio sulla fragilità e protezione delle infrastrutture
critiche, materia su cui da poco intervenuta una Direttiva Ue, il
29 marzo a Roma ci sarà un summit tecnico e scientifico, promosso
dall’Aiic e dall’Enea. Tra i partecipanti ci saranno i
rappresentanti del mondo delle università e della ricerca, del
Dipartimento della Protezione Civile, Banca d’Italia, Gse, Cnr,
Enav, Jrc-Ispra, Telecom Italia, Booz & Co, Eustema e Formit, che
metteranno in comune le esperienze derivanti dall’attività
quotidiana di gestione di infrastrutture critiche e da studi ed
attività di ricerca delle comunità scientifiche.
L’indagine del Csis per Mcafee ha messo in evidenza che,
nonostante l’elevazione delle barriere tecnologiche e
l’adeguamento delle normative, il 37% degli intervistati ha
ammesso che la vulnerabilità è aumentata negli ultimi dodici
mesi. Ma addirittura due quinti si attende un incremento degli
incidenti di sicurezza.
“Data l’attuale situazione economica, è necessario che le
aziende si preparino alla instabilità che gli attacchi informatici
sulle infrastrutture critiche potrebbero causare – puntualizza Dave
DeWalt, amministratore delegato di McAfee – perché ci sono sistemi
dai quali dipendiamo ogni giorno, dal trasporto pubblico
all’energia e telecomunicazioni, e un attacco ad uno di questi
settori potrebbe provocare sconvolgimenti economici molto estesi,
disastri ambientali, perdita di proprietà e persino della
vita”.
Lo scenario che emerge dal report è allarmante. C’è poca
fiducia nel livello di preparazione (soprattutto in Arabia Saudita,
India e Messico); c’è la percezione di un aumento dei rischi
anche per i tagli alle risorse per la sicurezza imposti dalla
recessione (riduzioni rilevanti sono state registrate
nell’energia, 27%, e nel gas-petrolifero, 31%); e
dell’implicazione di istituzioni e Paesi stranieri negli attacchi
(tra quelli più colpiti dalle minacce gli Usa e la Cina); si
riconosce che le leggi sono ancora inefficaci per la protezione da
attacchi (lo crede il 55% degli interpellati, maggior scetticismo
in Russa, Messico e Brasile); l’onere maggiore delle aggressioni
lo sostengono le compagnie d’assicurazione, ma parte ricade anche
su clienti e contribuenti.
L’Italia non brilla per i livello di adozione delle misure di
sicurezza per la protezione della infrastrutture critiche: mentre
al primo posto nella corsa c’è la Cina (62%), seguita da Usa
(53%) e Inghilterra (51%); nel gruppo di coda, dietro alla
Germania, c’è il nostro Paese, seguito da Spagna e India (tutti
sotto il 40%).
Tra le fragilità dei sistemi ci sono gli standard di
autenticazione, basati ancora sul vecchio sistema “username –
password” e, invece, molto poco sulla tecnologia biometrica. E
questo facilita gli attacchi che gli hacker compiono sempre di più
ai danni dei singoli utenti mediante attacchi di phishing. Altro
motivo di allarme è la crescente diffusione del “cloud
computing”, in base al quale i programmi e le applicazioni non
sono più nei pc ma nei server remoti, scelta vista con favore
dalle aziende, ma che – secondo gli esperti di sicurezza e
protezione delle infrastrutture critiche – crea un nuovo fronte
di fragilità dei sistemi.
Un problema che è emerso con frequenza riguarda la risposta dei
Governi alle nuove minacce. Esistono modelli comuni, come i team
per le emergenze informatiche, i Cert- Computer Emergency Response
Team (in Italia è attivo presso l’ex CNIPA, ora DigitPa) per la
gestione della reazione agli eventi di sicurezza. Ma la loro
efficacia non è omogenea e in molti casi si assiste ad un costante
“lavori in corso”. Il rapporto McAfee-Csis si conclude con una
considerazione-appello: “Se il cyberspazio è il Far West, allora
lo sceriffo deve riportare l’ordine”. Ossia spetta ai governi
intervenire sulla sicurezza delle reti che coinvolgono le
infrastrutture critiche, cioè il normale svolgimento della vita di
un Paese.