Con il recente intervento del Presidente Usa Barack Obama lo scontro sulla net neutrality si è fortemente polarizzato, assumendo i contorni di una battaglia per una Rete libera e aperta. In tutto questo fiorire di accuse reciproche fra i due campi contrapposti, spicca lo studiato silenzio di una categoria di attori per cui l’evoluzione del dibattito sulla net neutrality è fondamentale, vale a dire gli Over the top (Ott). A dir il vero, molti di loro – Google in primis – hanno una storia di pronunciamenti a favore di una Rete in cui ogni byte è un byte e non ‘vale’ più di un altro. Ancora a settembre, il gigante di Mountain View aveva postato su Google Take Action un messaggio inequivocabile: “Nessun Isp deve poter bloccare o rallentare il traffico della Rete, né deve poter vendere ‘corsie veloci’ che diano priorità a certi servizi Internet rispetto ad altri”. Non c’era un’esplicita richiesta a riclassificare la banda larga sotto il Title II, ma nella sostanza la posizione di Google si allineava a quella di molti attivisti della net neutrality.
Perché allora quest’assordante silenzio? È ovvio che dal punto di vista economico gli Ott trarrebbero vantaggio da una net neutrality come quella delineata da Obama. Finché lo si può evitare, perché Netflix o Skype dovrebbero infatti accettare una situazione per cui un giorno potrebbero essere obbligati a girare ad un Isp parte dell’abbonamento riscosso dai loro clienti? O, per quello che riguarda Google, una parte dell’advertising raccolto per mezzo di YouTube?
Come si spiega quindi che i grandi Ott – da Amazon a Google, da Paypal a Facebook, da Yahoo a Ebay, da Netflix a Twitter – si sono limitati ad una presa di posizione collettiva, dietro lo scudo della Internet Association di cui fanno parte, senza impegnarsi in prima persona in dichiarazioni forti ed eventualmente in campagne con cui mobilitare i loro milioni di utenti?
Le spiegazioni che vengono date a questo atteggiamento di tiepido supporto sono varie. In alcuni casi riguardano determianati Ott, in particolare Google e Facebook. Il primo è impegnato con Google Fiber a creare un’infrastruttura in fibra ottica in alcune città Usa (ad oggi, Kansas City e Austin); il secondo – seppur in fase decisamente sperimentale – sta studiando il modo di fornire connettività mediante l’uso di droni alimentati ad energia solare. Nel momento in cui questi due Ott puntano a diventare in qualche modo anche degli Isp è comprensibile che il loro entusiasmo per la net neutrality tenda a raffreddarsi. Ma ci sono anche motivazioni di ordine generale. La prima è che se passasse il principio di una regolamentazione “invasiva” gli stessi Ott potrebbero finire nel mirino dei regolatori; perlomeno quelli il cui campo di azione è ormai trasversale a varie tipologie di servizi: dati, voce e video. La seconda è che, prima ancora che fornitori di contenuti, questi Ott sono ormai corporate con turnover miliardari.
Ciò ha due conseguenze importanti. La prima è che simili giganti possono avere la tentazione di non gradire una variante forte della net neutrality della quale beneficerebbero in primis le piccole aziende e le startup che hanno proposte innovative e che potrebbero destabilizzare la gerarchia economica esistente. La seconda, legata alla prima, è che i pesi massimi degli Ott possono chiaramente permettersi di assicurarsi gli accessi prioritari all’utenza che gli Isp potrebbero offrire con eventuali ‘corsie preferenziali’. In questa prospettiva, la fetta d’introito da girare ai grandi carrier può ben sembrare un buon investimento a protezione della propria fetta di mercato.